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AFROAMERICANI

Ferguson, l'ira di una comunità mai integrata

Il poliziotto che uccise Michael Brown, un ragazzo nero disarmato, è stato assolto e subito scoppia la rivolta popolare degli afroamericani. Si riaccende la questione di questa comunità emarginata dal resto della popolazione statunitense. Nonostante abbia una folta rappresentanza al Congresso.

Esteri 27_11_2014
Ferguson, assalto alle auto della polizia

Ferguson, Missouri: round 2. L’uccisione di Michael Brown, ragazzo afroamericano, da parte del poliziotto Darren Wilson, aveva scatenato la protesta della maggioranza nera della cittadina di Ferguson, nel Missouri. Adesso, a infiammare di nuovo gli animi è giunta la sentenza di assoluzione di Wilson: il poliziotto, secondo giuria e giudice, ha agito per legittima difesa.

Solitamente si è innocenti fino a prova contraria e, secondo questo criterio di normale civiltà giuridica, l’agente Wilson è innocente. Eric Holder, procuratore generale degli Usa (l’equivalente del nostro ministro della Giustizia), ha comunque ricordato che sono in corso altre due indagini federali, dunque: a livello nazionale e non limitate allo Stato del Missouri. Una riguarda la condotta dell’agente Wilson e l’altra quella del dipartimento di polizia di Ferguson, nel suo insieme, anche nel corso degli scontri successivi.

Attualmente, il grande impegno per le autorità statunitensi, a tutti i livelli, da quello statale nel Missouri a quello federale, è di riportare la calma. Barack Obama ha lanciato appelli affinché le manifestazioni diventino pacifiche, Holder ha plaudito gli “eroi” che stanno placando l’ira popolare, il governatore del Missouri, Jay Nixon, invita i manifestanti alla calma e i poliziotti alla moderazione. E intanto manda a Ferguson la Guardia Nazionale, a rafforzare le file delle forze dell’ordine. C’è anche qualche voce che stride, parecchio fuori dal coro. Ad esempio quella della senatrice democratica (afroamericana) Maria Chappelle-Nadal, che già commentando la sentenza Wilson parlava di “conflitto razziale”. E finiva per alimentarlo sul serio. Intanto gli scontri dilagano: saccheggi e assalti alla polizia a Ferguson (44 gli arresti), manifestazioni e incidenti anche a Washington DC, New York, Baltimora, Chicago, Seattle, San Francisco. Tutta la comunità afroamericana è in fiamme.

L’uccisione di Michael Brown ha riproposto una serie di domande sulla condizione della minoranza afro-americana. Sui numeri è facile giocare e molti ci hanno giocato in modo irresponsabile, data la situazione di estrema tensione. Uno dei luoghi comuni più diffusi in questi giorni è che la prima causa di morte per i giovani afroamericani sia la violenza della polizia. In questo modo, si “dovrebbe capire” la diffidenza congenita dei giovani neri non appena vedono una divisa. Ma non è vero. Come spiega bene il giornalista Juan Williams, del Wall Street Journal, «La prima causa di morte fra i giovani afro, fra i 15 e i 34 anni di età, è l’omicidio. Chi commette questi omicidi? Non la polizia, ma altri neri». La violenza di cui la comunità afroamericana è vittima, è dunque interna alla stessa comunità. Non c’è un fenomeno di violenza razziale praticata dalle forze dell’ordine. I dati di Williams sono attinti dal Center for Disease and Control Prevention, l’agenzia sanitaria federale. Dalle cui statistiche più recenti risulta anche un altro dato straordinario (riferito al 2011, ultimo anno con dati completi): il 40% dei maschi neri, deceduti fra i 15 e i 34 anni di età, è vittima di omicidi. Il 93% di questi omicidi sono atti criminali commessi da altri neri. Giusto per fare un paragone che rende l’idea delle dimensioni del fenomeno, i maschi bianchi che muoiono assassinati alla stessa età sono appena il 3,8%.

Un’altra falsa "certezza" che ha alimentato la rabbia della popolazione afroamericana di Ferguson riguarda la frequenza con cui la polizia americana ammazzerebbe i neri. Persino un intellettuale progressista nero, Marc Lamont Hill, ha ripetuto in televisione, alla Cnn, l’impressionante statistica di “un nero disarmato ucciso dalla polizia ogni 28 ore”. Praticamente uno al giorno. Questa statistica risulta infondata, perché è tratta da uno studio non scientifico condotto da un movimento politico, il Malcolm X Grassroots Movement. Il numero risulta dalla divisione fra il numero di ore che compongono un anno (8760) con quello di afroamericani uccisi in scontri con la polizia nell’ultimo anno (313). Ma fra questi 313 sono inclusi uomini armati e disarmati, aggressori e aggrediti, assassini colpiti dalla polizia dopo aver commesso un delitto o colti in flagranza di reato. Di fatto è una statistica priva di senso. Ma la frase “un afroamericano disarmato ucciso ogni 28 ore dalla polizia” è abbastanza forte da scatenare una rivoluzione.

Dall’altra parte, la contro-informazione dei conservatori ci mette del suo per intorpidire le acque. Anche Michael Medved ripete da giorni una mezza-falsità. Quella secondo cui il maggior numero di vittime della polizia sia costituito da bianchi. È vero in termini assoluti, ma la popolazione degli Usa è costituita al 63% da bianchi e solo da un 12% di afroamericani. Se guardiamo alle uccisioni di neri, da parte della polizia, in proporzione alla popolazione, vediamo che il tasso di mortalità dei neri è di tre volte superiore a quello dei bianchi. Quindi il problema c’è, non è da esagerare, ma non è neppure possibile negarlo.

Così come non è possibile negare (come fanno ancora i conservatori) che vi sia una sovra-rappresentazione di bianchi nel dipartimento di polizia di Ferguson. In una cittadina in cui il 67% della popolazione è afroamericana, la polizia è costituita da 50 poliziotti bianchi e 3 neri.

Insomma, trasformando queste fredde statistiche in un discorso più vivo, il problema afroamericano in America esiste ed è grave: la stragrande maggioranza delle violenze viene commessa da neri ai danni di altri neri, la maggior parte dei giovani di quella comunità muore di morte violenta ed è, dunque, più facilmente coinvolta (rispetto alle altre etnie) in scontri con la polizia. E non c’è verso di integrare quella comunità al resto della popolazione, come dimostra anche la quasi totale assenza di neri nel locale corpo di polizia.

Come già avevamo visto su queste colonne, in occasione dell’anniversario dello storico discorso "I have a dream" di Martin Luther King, il sogno dell’emancipazione non si è realizzato. Da quando sono finite le leggi che discriminavano i neri, il gap dell’occupazione è elevatissimo. Il tasso di disoccupazione dei neri è il più alto in assoluto rispetto a quello di tutte le altre etnie statunitensi: il 15,9% degli afroamericani è disoccupato, rispetto al 14,6% dei nativi americani (“indiani” e nativi di Alaska e Hawaii), all’11,5% degli ispano-americani, al 7,2% dei bianchi e al 7% degli asiatici. A Ferguson, giusto per restare sul tema bollente di questi giorni, il tasso di disoccupazione dei neri è di quasi 2 volte superiore a quello dei bianchi, il 16% contro l’8,5%.

Eppure, la comunità nera ha una folta rappresentanza parlamentare, in entrambi i partiti: un quarto della Camera e un decimo del Senato, per una minoranza che è pari ad appena il 12% della popolazione americana. (Il presidente è un caso a parte, perché non è un afroamericano propriamente detto, ma figlio di un immigrato del Kenya). Il fatto che vi sia una così ampia rappresentanza nelle istituzioni e nella burocrazia pubblica e una così scarsa integrazione in tutti gli altri settori sociali, contribuisce a trovare una risposta al mistero della questione afroamericana. Non c’è un vero e proprio problema di razzismo, ma una cattiva politica di integrazione. Una politica fondata su incentivi statali, invece che sulla parità di diritti per tutti: il maggior datore di lavoro per i neri è tuttora il settore pubblico, inclusa la politica attiva. Gli afroamericani sono violenti perché disoccupati e poco integrati, o vengono respinti dagli altri perché sono violenti? Questa domanda non può trovare una risposta definitiva nella statistica e nemmeno nella sociologia. Spesso è un serpente che si morde la coda: dalla violenza nasce l’emarginazione e dall’emarginazione la violenza. Finora i progressisti americani hanno pensato che risolvendo i problemi sociali si potesse migliorare il comportamento delle persone. Questa politica, però, non ha mai funzionato, come dimostra il fallimento di mezzo secolo di politiche di affirmative action (discriminazione positiva) a favore dei neri. Forse è giunto il momento che siano i neri ad emanciparsi da soli. E che siano i loro rappresentanti a capirlo.