Femen sacrilega in chiesa: per la Cedu è libertà d'espressione
Nel caso Bouton vs Francia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito, all’unanimità, che rientra nella «libertà di espressione» il sacrilegio compiuto da una Femen il 20 dicembre 2013. La donna, a seno nudo, davanti al tabernacolo della chiesa parigina di S. Maddalena, aveva simulato di abortire Gesù. L’ennesimo attacco alla fede cattolica, giustificato con motivazioni assurde.
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Dopo la sentenza che avalla l’eutanasia per depressi, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha prodotto un’altra perla della decadenza giuridica e morale in cui è finita l’Europa che ha rinnegato Cristo. Con una decisione pubblicata il 13 ottobre, la Cedu ha stabilito all’unanimità (7 giudici su 7) che un’attivista, a seno nudo, che sull'altare di una chiesa aveva simulato di abortire Gesù, ha esercitato la sua «libertà di espressione».
Il caso risale al 20 dicembre 2013, quando Eloise Bouton, allora appartenente al movimento delle Femen, indossando un velo azzurro e una simil-corona di spine, mimò appunto un aborto e urinò davanti al tabernacolo della chiesa parigina di Santa Maria Maddalena (La Madeleine). Al sacrilegio erano presenti una decina di giornalisti, preventivamente avvertiti dall’attivista. Durante i fatti si stavano svolgendo prove di canto e, dopo la ferma richiesta del maestro del coro, la Femen aveva lasciato il luogo di culto.
In un’intervista apparsa tre giorni più tardi, sotto forma di lettera rivolta al parroco della Madeleine, la Bouton spiegava che nella circostanza aveva tenuto tra le mani «due pezzi di fegato di manzo, simboleggianti Gesù Bambino abortito». All’altezza della pancia si era tatuata una scritta volgare, che faceva riferimento al Manifesto delle 343, una dichiarazione del 1971 firmata da femministe francesi che ammettevano di aver abortito e chiedevano di legalizzare l’aborto; altra scritta sul dorso della Femen: «Il Natale è cancellato». Concetti simili venivano ribaditi sul sito Internet delle Femen francesi, con un’altra blasfemia - diretta a Maria e Gesù - che vi risparmiamo. Ne era nata dunque una causa giudiziaria, intentata dal parroco. Il tribunale aveva condannato la Femen a un mese di carcere - con pena sospesa - e al pagamento alla parrocchia di 3.500 euro totali (2.000 per danni morali, il resto come contributo spese). Un’inezia, in confronto ai fatti. Sia il secondo che il terzo grado di giudizio avevano confermato la decisione, che sul piano penale riguardava solo il reato di natura sessuale (exhibition sexuelle).
Ma la Cedu ha ribaltato tutto, con una sentenza zeppa di contraddizioni e arrampicate sugli specchi. La Corte di Strasburgo sostiene che l’azione dell’allora Femen debba essere considerata come una «performance» e come tale protetta dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela la libertà di espressione. In realtà, lo stesso art. 10 non prevede una libertà di espressione illimitata, ma ricorda che essa può essere sottoposta a restrizioni e sanzioni per ragioni legate, tra l’altro, alla protezione della morale e dei diritti altrui. Era stato questo uno dei ragionamenti principali delle corti francesi, che avevano sottolineato - soprattutto in Appello - la gravità dell’offesa alla fede cattolica.
La Cedu si dichiara addirittura «colpita dalla gravità della sanzione» inflitta alla donna dai tribunali transalpini, lamentando che essa ne macchia la fedina penale e la espone al carcere in caso di nuova condanna. Secondo la Corte, inoltre, «una pena detentiva inflitta nel contesto di un dibattito di interesse politico o pubblico è compatibile con la libertà di espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali sono stati gravemente violati, come nel caso, ad esempio, di discorsi d’odio o di incitamento alla violenza» (n° 53). Traduciamo: per la Cedu, un’offesa a Gesù e Maria davanti all’altare, che a cascata è anche un’offesa a milioni/miliardi di fedeli, non costituisce un discorso d’odio. Del resto, la categoria dei “discorsi d’odio” è usata principalmente per tacitare e punire le voci contrarie all’ideologia Lgbt e abortista, voci catalogate come “odiose” anche se pacate e ragionate.
La stessa Cedu getta difatti la maschera, sostenendo la nobiltà del fine della Femen, che «ha avuto l’unico obiettivo di contribuire, attraverso una performance volutamente provocatoria, al dibattito pubblico sui diritti delle donne, in particolare sul diritto all’aborto» (n° 53). Il diritto del bambino a nascere non è nemmeno considerato. Ma questo oggi non fa più notizia. Quel che più colpisce è il cortocircuito logico in cui cade la Cedu pur di appoggiare la causa dell’aborto, visto che poche righe prima aveva dovuto ammettere che «la libertà di espressione» della Femen era stata esercitata «in modo tale da offendere intime convinzioni personali attinenti alla morale o addirittura alla religione» (n° 49).
Il tentativo di giustificare l’azione della Femen invocando il dibattito pubblico e l’uso del seno scoperto come “arma” politica, infatti, non sta in piedi. Non solo la Bouton ha recato un’offesa al pudore altrui. Ma lo ha fatto dissacrando volutamente una chiesa, per di più davanti al tabernacolo, dove Nostro Signore è realmente presente in corpo, sangue, anima e divinità.
Al culmine della loro audacia, i giudici di Strasburgo rimproverano ai tribunali interni francesi il fatto di aver «rifiutato di prendere in considerazione il significato delle iscrizioni» dipinte sul corpo della ricorrente e dunque le sue idee, da diffondere attraverso un ben noto luogo di culto «scelto per promuovere la copertura mediatica di questa azione» (n° 64). Come dire: la Cedu considera sacro non Dio bensì l’aborto, perciò tutti i mezzi per difendere questo cosiddetto “diritto” sono giustificati.
In conclusione, «la Corte ritiene che l’ingerenza con la libertà di espressione della ricorrente, costituita dalla pena detentiva sospesa inflittale, non fosse “necessaria in una società democratica”». Di qui, la Cedu ricava che vi sia stata una violazione dell’art. 10 della Convenzione. E condanna la Francia a risarcire la donna: 2.000 euro per danni morali e 7.800 euro per le spese da lei sostenute. Le Scritture hanno già messo in guardia da simili ribaltamenti: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene» (Is 5, 20).
Sorge inoltre una domanda: i giudici della Cedu avrebbero avuto la stessa sfrontatezza a parlare di «libertà di espressione» se la Femen avesse fatto la sua esibizione in una moschea? Supponiamo di no. Ricordiamo un precedente. Nel 2018, la Cedu aveva sostenuto la condanna penale di una relatrice austriaca accusata di aver equiparato alla “pedofilia” il rapporto sessuale di Maometto con Aisha, 9 anni. Secondo i giudici, le affermazioni della donna costituivano «una violazione maligna dello spirito di tolleranza alla base della società democratica» e mettevano «in pericolo la pace religiosa».
All’opposto, la Cedu ha già legittimato in passato attacchi alle chiese e ai cristiani. Nel 2018, la Corte di Strasburgo aveva sostenuto che la provocazione blasfema delle femministe di Pussy Riots nel coro della cattedrale ortodossa di Mosca fosse protetta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Come spiega l’Eclj (European centre for law and justice), l’avvocato delle Pussy Riots - ex collaboratore alla fondazione di George Soros - è poi divenuto un giudice della stessa Cedu. Sempre nel 2018, i giudici di Strasburgo avevano condannato la Lituania per aver punito delle pubblicità blasfeme raffiguranti Gesù e Maria.
Una cosa, in definitiva, è chiara. Alla Cedu c’è un buon numero di giudici che non solo fanno finta di non vedere i frutti dell’avversione al cristianesimo (chiese profanate e bruciate, statue e crocifissi distrutti, abbrutimento generale), ma che appoggiano loro stessi la cristianofobia.