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LA MOSTRA

Fattori, il trionfo della vita semplice

A quasi due secoli dalla nascita di Giovanni Fattori, la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino gli dedica una mostra (fino al 20 marzo) che ne svela la passione per il vero e la semplicità. Vivace e originale, inaugurò una nuova tecnica pittorica: la “macchia”.

Cultura 25_02_2022

“Firenze mi ubriacò, vidi molti artisti, ma nulla capivo: mi parevano tutti bravi e io mi avvilii tanto che mi spaventava il pensiero di dover cominciare a studiare”. Il vero avvicinamento alla pittura del grande maestro toscano (nacque a Livorno nel 1825 e morì nella città dei Medici nel 1908) avvenne proprio a Firenze, dove il contatto con un ambiente culturale e artistico così stimolante ebbe su di lui un effetto sconvolgente. Ma l’espressione inquieta e insieme determinata dell’Autoritratto del 1854, la prima opera che si incontra in mostra, ci conferma la velocità di maturazione artistica da lui conquistata. Si cimentò senza timore con le sperimentazioni di cui si discuteva con vivacità tra i frequentatori del celebre Caffè Michelangiolo per rinnovare il linguaggio pittorico, perché fosse sempre più aderente al vero e nello stesso tempo in grado di impressionare con le macchie di colore e le prospettive studiate e inusuali. A quegli anni e ai successivi - siamo nella seconda metà del XIX secolo - appartengono le numerose opere a tema militare, tra cui per esempio la famosa tela del 1862 Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta, dipinti “non certo di epica esaltazione patriottica, bensì di laconica ma profondamente umana rappresentazione degli aspetti di dolore, di fatica, di morte, inesorabilmente connessi alla guerra”.

Fattori era convinto che i temi di vita militare ben si confacessero ad esprimere con evidenza le sue idee in arte. E in tempi come i nostri, sempre sull’orlo di un conflitto, anche nella vecchia Europa, non ci disturba affatto scorrere quella sequenza di scene di battaglie e convogli militari (siamo negli anni delle avventure e disavventure risorgimentali). Perché la morte, la fatica, il coraggio, la concitazione, l’obbedienza cieca dei soldati agli ordini ricevuti sono testimonianza di drammatica umanità, che ci colpisce profondamente anche dal punto di vista emotivo.

Del resto, il giudizio del pittore livornese sulle ostilità belliche è chiarissimo anche grazie all’impressionante dipinto del 1873 Soldati abbandonati, in cui i corpi senza vita di due uomini lungo una via di campagna, “e nient’altro che venga a turbare il silenzio terribile del loro perduto orizzonte”, sono un epitaffio eloquente e crudele. “Il mio ideale è stato i soggetti militari, ché mi è sembrato vedere questi ragazzi pronti a tutto sacrificare per il bene della patria e della famiglia”. Si tratta di una disposizione di pensiero dell’artista acuita certamente dalla disillusione degli ideali risorgimentali, anche quando celebra l’ingresso di Garibaldi a Palermo nell’omonima tela degli anni 1860-1862. Il pittore non volle mai contravvenire alla sua etica, non cercò il successo al servizio dei potenti e continuò imperterrito a rappresentare soldati e contadini, con uno stile capace di rendere evidente “la vita aspra e dura di quegli italiani da fatica e da leva” piena però di “grandezza”, con immagini capaci di emozionare per le nuove prospettive e i rapporti spaziali reinventati.

Rappresentava con acume la realtà, l’irrequieto toscano, perché sapeva conoscerla anche nei suoi risvolti nascosti. Quando si recò a Parigi nel 1875 riconobbe nella metropoli transalpina “l’aspetto grandioso e immenso”, la vide piena di movimento, di vita, di confusione, con i suoi negozi scintillanti e i caffè frequentatissimi, ma si accorse che “sotto nascondeva tutte le miserie”. Così l’arte per lui, grazie a una tecnica innovativa, doveva essere in grado di rappresentare e insieme suscitare profonda impressione. La severa sintesi della “macchia” è proprio la capacità di restituire la forma (che per i Macchiaioli in realtà non esiste), in quanto creata dalla luce come macchie di colore distinte e sovrapposte.

Fattori conferma la sua forza espressiva anche nei ritratti e nei paesaggi, dove riesce a coniugare la forza assertiva delle figure con la portata del sentimento, mettendo a punto la sua nuova maniera espressiva. Così il Ritratto della prima moglie Settimia Vannucci (1865) ci svela tutto l’amore che Fattori nutrì per lei, accompagnandola poi con affetto nella sua malattia tubercolare, mentre la semplicità sottomessa e laboriosa delle contadine livornesi, Le macchiaiole (1866), ci immerge con incanto nel paesaggio campestre a lui così familiare. I quadri più belli sono forse quelli della campagna di Castiglioncello ritratta nell’olio su cartone Bovi bianchi al carro (1868), in cui l’imponente biancore dei buoi si staglia contro il rosso del carro, sullo sfondo azzurro del mare. O l’affascinante Pastura maremmana (Cavalli al pascolo), del 1872, dove spicca il movimento elegante di quegli animali (tanto amati perché simbolo di libertà) che nessuno come lui ha saputo dipingere con tanta maestria in tutte le pose. L’ha dimostrato anche nel momento massimo della delusione per la politica dell’Italia sabauda nello spettacolare dipinto Lo scoppio del cassone (1878-1880), con l’imprevisto scomposto movimento turbinoso dei cavalli, nel disordine drammatico della frantumazione di ogni cosa e nella nebbia polverosa della fine imminente per uomini e animali.

Nel suo percorso artistico ciò che affascina di più Fattori è davvero il mondo rurale, un universo rustico da rappresentare con un linguaggio severo e meditato, memore della tradizione rinascimentale. Rifiuto dunque del naturalismo agreste toscano tradizionale, per infondere invece verità e forza epica alla vita umile dei contadini, proprio come a quella dei soldati. Memorabile il Buttero (1882), volto scolpito con occhi di ghiaccio, il pastore maremmano che, in Butteri e mandrie in Maremma (1894), cavalca quasi con ferocia in mezzo a una natura selvatica e intatta. È talmente potente la personalità di questa umanità semplice ma dignitosa e forte, che il nostro innovativo pittore può permettersi di raffigurare di spalle una contadina che incede lenta e maestosa seguendo un uomo a cavallo, su una strada luccicante che domina la scena: è il fascino del dipinto La strada bianca (1887).

Forza e umiltà di uomini e animali riflettono pienamente l’indole di Fattori, che per tutta la vita ha cercato idee originali per rappresentare il suo “vero”. La mostra ci permette dunque di conoscere in profondità un artista intensamente umano, consapevole della bellezza della semplicità: quella con cui ci appare nel suo ultimo Autoritratto (1894), che ci cattura alla fine del percorso con l’intensità del suo sguardo.