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MEDIO ORIENTE

Fatah e Hamas uniti. Per distruggere Israele

I due movimenti palestinesi, Hamas e al Fatah, dopo anni di guerra interna, hanno stretto un patto di alleanza, facendo saltare il processo di pace. Apparentemente diversi (uno islamico l'altro laico) hanno gli stessi obiettivi strategici.

Esteri 25_04_2014
Fatah e Hamas

«Ecco la buona notizia che annunciamo al nostro popolo palestinese in patria e disperso nel mondo… sono finiti la fase e gli anni di divisione». Queste sono le parole pronunciate il 23 aprile dal vice-presidente del gabinetto politico di Hamas, Ismail Haniyye, a commento dell’annuncio ufficiale dell’ennesima “riconciliazione nazionale” tra Hamas e al-Fatah. È importante sottolineare che non si tratta di una novità assoluta poiché da quando nel giugno del 2006 Hamas vinse le elezioni, gli scontri armati tra le due anime politiche dell’Autorità palestinese si sono susseguiti sino a giungere nel giugno 2007 alla spartizione del potere nei territori: Hamas ottiene il controllo su Gaza e Fatah sulla Cisgiordania. Ciononostante non cessano i reciproci attacchi, ma nemmeno i tentativi di riconciliazione per scopi meramente politici. Qualche mese prima della spartizione delle aree d’influenza, nel febbraio 2007 Fatah e Hamas siglano il cosiddetto accordo della Mecca in cui si dichiarava il cessate il fuoco nella striscia di Gaza e la costituzione di un governo di unità nazionale. Il 14 giugno 2007 Mahmud Abbas dichiara sciolto il governo di unità nazionale e proclama lo stato di emergenza. Nell’aprile 2011 al Cairo Hamas e al-Fatah si impegnano ancora una volta a costituire un governo congiunto provvisorio in attesa di elezioni ufficiali nel 2012. Il 4 maggio 2011 l’accordo viene firmato, proprio come il documento dei giorni scorsi, da Khaled Meshaal e Mahmud Abbas che nel febbraio 2012 riconfermano i patti a Doha in Qatar e nel maggio al Cairo.

La differenza dagli accordi precedenti va ricercata in un discorso del 19 aprile di Khaled Meshaal in cui ventilava il riavvicinamento ad al-Fatah: «Hamas farà l’impossibile per i prigionieri, come farà l’impossibile per Gerusalemme e al-Aqsa, per il diritto al ritorno, la terra palestinese è tutta la terra, e per l’onore della nazione islamica. […] Il crimine sionista, di cui siamo vittime da decenni prima e dopo il 1948, richiede che noi come popolo palestinese restiamo uniti in un fronte comune per ottenere la liberazione dei prigionieri, poiché è una responsabilità, un dovere e un progetto, di ogni palestinese, uomo e donna, di ogni arabo e araba, di ogni musulmano e musulmana e di ogni uomo libero nel mondo. Dobbiamo iniziare noi in quanto palestinesi a concentrarci sugli obbiettivi principali, non come appartenenti a Hamas, bensì come palestinesi […]» Meshaal sottolinea altresì che gli obiettivi andranno raggiunti non solo attraverso l’unione delle forze palestinesi, ma anche con ogni mezzo «in modo particolare attraverso il jihad e la resistenza soprattutto quella armata, attraverso ogni forma di lotta politica, diplomatica, legale, pubblica».

Il riavvicinamento ad al-Fatah rientra quindi nella tattica di rafforzamento del fronte palestinese, nel momento in cui il movimento dei Fratelli Musulmani, cui è legato Hamas, è in difficoltà a livello regionale e nel momento in cui Mahmud Abbas potrebbe lasciare la dirigenza di al-Fatah per motivi di età. Come tutti gli accordi stipulati da Hamas è un accordo temporaneo e pragmatico.

Colpiscono però lo stupore, la delusione da parte della dirigenza israeliana. Il ministro dell’economia Naftali Bennet ha dichiarato che «l’accordo tra al-Fatah, Hamas e il Jihad islamico conduce il Medio Oriente in una nuova epoca diplomatica. L’Autorità palestinese è diventata la più grande organizzazione terroristica al mondo, a 20 minuti da Tel Aviv». È come se Hamas e Jihad islamico fossero considerati i terroristi conclamati e al-Fatah il movimento moderato con cui negoziare. Purtroppo non è così, ma molti sono cascati nel tranello.

Nel 2007 Assassi Abdelhamid, un intellettuale berbero marocchino, in un articolo comparso sul sito liberale Bila hudud si era schierato a favore della secolarizzazione del mondo islamico in modo particolare criticando movimenti come Hamas, ovvero quegli stessi movimenti che i nostri politici ritengono validi interlocutori poiché democraticamente eletti. «È vero che Hamas è giunto al potere in maniera trasparente e democratica - ammette Abdelhamid – È altrettanto vero però che una parte significativa dei palestinesi ha votato per Hamas nella speranza di potere risolvere i problemi con i versetti coranici. […] Hamas è asceso al potere perché non crede nel diritto all’esistenza di Israele e crede che lo stato palestinese debba comprendere non solo la Cisgiordania e la striscia di Gaza bensì tutta la Palestina dal Mediterraneo al Giordano».

D’altronde lo statuto di Hamas all’articolo 7 ne conferma, basandosi su fonti religiose, la natura anti-sionista: «Il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Dio, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – la pace e la benedizione di Dio su di Lui – ha detto: “L’Ultimo Giorno non arriverà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Dio, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Ghardaq non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei”». All’articolo 13, in maniera tutt’altro che ambigua, si espone chiaramente la posizione circa eventuali trattati di pace: «Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di Resistenza Islamico. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione. Il nazionalismo del Movimento di Resistenza Islamico è parte della sua religione, e insegna ai suoi membri ad aderire alla religione e innalzare la bandiera di Dio sulla loro patria mentre combattono il jihad. […] Ma il Movimento di Resistenza Islamico – che conosce le parti che si presentano alle conferenze e il loro atteggiamento passato e presente rispetto ai veri problemi dei musulmani – non crede che queste conferenze siano capaci di rispondere alle domande, o restaurare i diritti o rendere giustizia agli oppressi. Queste conferenze non sono nulla di più che un mezzo per imporre il potere dei miscredenti sui territori dei musulmani. E quando mai i miscredenti hanno reso giustizia ai credenti? […] Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad».

Non si potrebbe essere più chiari ed espliciti. Tutto ciò è sufficiente a dimostrare che gli spiragli di luce che ogni tanto provengono dai leader di Hamas non sono null’altro che un’applicazione alla lettera della tecnica della dissimulazione tanto cara ai Fratelli Musulmani cui fa riferimento anche Hamza Roberto Piccardo nel suo commento al versetto XVI, 106 del Corano: «L’esegesi classica fa riferire questo versetto a quei primi musulmani che furono costretti con maltrattamenti e minacce a rinnegare (a parole) la fede, pur mantenendola ben viva nel cuore. La portata generale del versetto si traduce in un’autorizzazione alla ‘tukya’ (la dissimulazione) data dalla legge islamica, quando palesare la fede potrebbe essere gravemente lesivo della vita, dell’incolumità personale o della libertà».

D’altronde le dichiarazioni di Mosab Hassan Yousef, figlio di un leader di Hamas convertitosi al cristianesimo, riguardo i rapporti tra Hamas e Israele non lasciano ombra di dubbio: «Non credo sia possibile. È forse pensabile che il fuoco e l’acqua coesistano? Hamas può fare politica per 10, 15 anni; ma se chiedessimo ad un capo di Hamas che cosa pensa che potrà accadere in futuro, se ci potrà essere una convivenza con Israele, la risposta sarà inevitabilmente negativa... a meno che non si voglia andare contro agli insegnamenti del Corano. Si tratta pur sempre del loro libro sacro, non di ideologie che possono semplicemente venire accantonate. Per questo non c’è scelta, non si tratta di Israele o di Hamas: la questione riguarda le loro idee. Non c’è altra scelta».

Dal canto suo al-Fatah, in modo più laico, afferma le stesse idee di Hamas. Nella Costituzione del movimento si legge: «Articolo (17) La pubblica rivoluzione armata è il metodo inevitabile per liberare la Palestina. Articolo (19) La lotta armata è strategia e non tattica, e la rivoluzione del popolo arabo di Palestina è il fattore decisivo nella lotta di liberazione, per estirpare l'esistenza sionista, e questa battaglia non cesserà finché lo Stato sionista non è demolito e la Palestina completamente liberata. Articolo (22) Opposizione a ogni soluzione politica offerta come alternativa alla demolizione dell'occupazione sionista in Palestina, così come ogni progetto inteso a liquidare il caso palestinese o ad imporre un mandato internazionale sul suo popolo». Inevitabile, quindi, una riconciliazione tra al-Fatah e Hamas per fare fronte unico contro l’“entità sionista”, inevitabile anche lo scontro interno tra i due movimenti per il potere nei territori, e per gestire le sovvenzioni internazionali. A Israele e all’Occidente non resta che accettare una realtà conclamata ed esplicitata dai documenti ufficiali dei due movimenti i cui nomi sono acronimi che parlano chiaro: al-Fatah è acronimo di Movimento Nazionale per la Liberazione della Palestina, Hamas di Movimento di Resistenza Islamico. Ma soprattutto si tratta di movimenti che non accetteranno mai la soluzione di due Stati, a scapito del popolo palestinese che avrebbe diritto a una dirigenza onesta che operi per i cittadini e non in nome di ideologie e di logiche di potere.