Fare più deficit? Risposta sbagliata a problemi reali
Nel preparare la finanziaria, i partiti di governo, Lega e Movimento 5 Stelle, si stanno scontrando con il ministro Tria perché vogliono alzare il livello di deficit pubblico, per poter spendere di più, trovare i soldi necessari ad avviare le riforme promesse. Ma è la risposta sbagliata a problemi reali.
Alzare un sasso per lasciarselo cadere sui piedi. La famosa frase del presidente Mao può spiegare la polemica che nelle ultime settimane ha accompagnato la preparazione del Documento di programmazione economica e del bilancio dello Stato per il prossimo anno. Sotto lo slogan “governiamo per il popolo, non per i potenti” si è poi consumata la disputa sul livello del deficit pubblico per trovare i soldi necessari ad avviare le riforme promesse da Lega e 5Stelle in campagna elettorale.
Il tutto dimenticando (o non conoscendo) i fondamentali non solo dell’economia, ma anche della fisica e del buon senso. Per esempio la regola che ogni azione provoca una reazione uguale e contraria e che quindi ogni scelta va misurata non solo secondo i possibili guadagni immediati, ma anche e forse soprattutto nei costi a medio e lungo termine. Guardiamo al deficit, cioè al divario tra entrate ed uscite dello Stato, un divario che va finanziato un aumento del debito pubblico. L’Italia ha un debito pubblico che si avvicina ai 2400 miliardi di euro, e su questo debito paga interessi tra i 70 e gli 80 miliardi all’anno. Ogni anno vanno in scadenza titoli per circa 400 miliardi che vanno rinnovati garantendo interessi ai valori di mercato. Orbene voi vi fidereste di un debitore che non solo per ripagare il proprio debito, ma anche per le spese quotidiane, è costretto a fare altri debiti? Se io presto dei soldi, lo faccio se ho almeno la concreta sicurezza che a tempo concordato mi vengano restituiti. Allora alzare l’asticella del deficit di mezzo punto (dall’1,9 al 2,4% come è stato sollecitato dai partiti di Governo) non vuol dire avere con facilità 10 miliardi in più a disposizione: questi miliardi vanno chiesti al mercato e quindi richiesti ai risparmiatori. Ma è del tutto verosimile, come è avvenuto e sta avvenendo, che di fronte ad un Governo che dimostri di non sapere tenere sotto controllo i conti i possibili finanziatori chiedano una remunerazione maggiore per compensare il rischio del proprio investimento.
E qui siamo al tanto citato spread. Da maggio a fine settembre il tasso di interesse sui titoli decennali italiani, quindi il prezzo che lo Stato deve pagare per prestare dei soldi, è salito di cento punti, quindi dell’1%. Questo vuol dire che nell’arco di un anno i maggiori oneri saranno immediatamente di almeno 4 miliardi (l’1% dei 400 miliardi di nuove emissioni) con l’effetto che l’anno prossimo saranno 8, poi 12 e via crescendo. Quindi il vantaggio immediato equivale a porre un peso almeno tre volte superiore nei prossimi anni. Certo, si può dire che comunque quindi dieci miliardi in più possono ora servire a sostenere l’economia, quindi a far crescere i redditi, quindi ad aumentare il gettito fiscale e la possibilità di restituire comodamente i prestiti nei prossimi anni. Per ora sembra tuttavia che la maggiore spesa sarà destinata ad aumentare le pensioni minime, a permettere il pensionamento anticipato a migliaia di lavoratori, a ridurre in maniera simbolica il carico fiscale su professionisti e piccole imprese.
Risposte sbagliate a problemi reali. La stagnazione dei consumi non è data dalla scarsa disponibilità di spesa degli italiani, ma dalla recessione demografica, dal calo delle nascite, dalle crescita di un’emigrazione che interessa ormai migliaia di giovani. La disoccupazione non deriva dal fatto che gli “anziani” restano al lavoro più a lungo (il che peraltro non è vero perché l’Italia ha un’età reale di pensionamento di 63 anni in linea con il resto d’Europa), ma deriva almeno in parte dalla mancata coincidenza tra le esigenze delle imprese e le competenze acquisite dai giovani nella scuola. La crescita economica più lenta che nel resto d’Europa deriva dalla scarsa innovazione, dal peso degli oneri burocratici e amministrativi, dal costo del lavoro più alto per effetto di tasse e contributi.
Ebbene ci sono misure per rilanciare la natalità, per migliorare il sistema educativo, per ridurre di fatto gli oneri sulle imprese? La risposta è malinconicamente negativa. Semplicemente perché l’economia reale è qualcosa di diverso dalle campagne elettorali.