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STORIA

Famiglia e divorzi: al tempo di Gesù era molto peggio

La concessione della comunione ai divorziati risposati viene giustificata con il fatto che oggi ci sono troppe situazioni matrimoniali irregolari. Ma un attento esame storico dimostra che ai tempi di Gesù il matrimonio fosse ancor più fragile.

Famiglia 23_05_2014
Matrimonio romano

Quello che si sente dire, non di rado, anche in ambienti cattolici, è che la concessione della comunione ai divorziati risposati è un’esigenza dovuta ai tempi. Troppe sono oggi le persone divorziate risposate, per mantenere in vita vecchie regole e vecchi schemi. 

Si tratta con tutta evidenza di una idea debole, per la quale la verità è sottomessa all’arbitrio del numero. Fu utilizzata dai radicali al tempo del divorzio (“sono già milioni i divorzi de facto, per ignorare ancora la possibilità di un divorzio riconosciuto”, si diceva già allora), e sempre dagli stessi per legalizzare l’aborto: “poiché gli aborti clandestini sono ormai la norma, tanto vale regolarizzare l’aborto tout court”. 

Ma lo scopo di questo articolo non è quello di valutare un simile ragionamento sul piano logico; e neppure da un punto di vista teologico. Lo scopo è semplicemente capire, da un punto di vista storico, se questa posizione sia compatibile con l’insegnamento di Cristo. 

La domanda che vogliamo porci è allora questa: come si comporterebbe Colui che è sommamente buono e misericordioso, Gesù Cristo stesso, se venisse oggi? Cambierebbe la dottrina dell’indissolubilità matrimoniale, ritenendola inadeguata ai tempi, e irrispettosa per l’alto numero di divorziati risposati oggi esistente? Introdurrebbe eccezioni, casistiche, problematicità varie come quelle proposte dal cardinal Kasper? Renderebbe un po’ più flessibile, quel laconico e lapidario comandamento che dice “Ciò che Dio congiunge, l'uomo non separi” (Mt.19,8)?

Il primo punto da cui partire è senza dubbio questo: il matrimonio, nel mondo antico, pre-cristiano, è di due tipi: monogamico, o poligamico. 

La monogamia è presente in Grecia, presso il popolo ebraico e a Roma; in altre civiltà, invece, vige la poligamia. 

L’insegnamento di Cristo sulla famiglia non è dunque una novità del tutto inaudita: la monogamia, lo si ripete, era intuita presso vari popoli come l’istituto portante della società. Siamo di fronte a quello che viene chiamato di solito il “diritto naturale”: anche popoli non cristiani portano nel loro cuore il suono di esigenze morali universali. Come Ippocrate aveva capito che abortire è uccidere, in un’epoca in cui l’aborto era però la norma, così i romani comprendevano bene che l’optimum, nel rapporto uomo donna, è la fedeltà e la durata del coniugio. 

Così in età repubblicana, cioè prima di Cristo, a Roma è previsto il fidanzamento, attraverso una cerimonia ufficiale comprendente lo scambio di un anello (messo nell’anulare, perché, secondo Aulo Gellio, esisterebbe “un nervo molto sottile, che parte dall’anulare e arriva al cuore”). Ad esso segue il matrimonio: una cerimonia solenne, contrassegnata da una sorta di comunione davanti ad un altare, su cui viene offerto a Giove un pane di farro. Inoltre vi è il sacrificio di un animale, di cui vengono lette, da un aruspice, le interiora. Una donna, sposata una sola volta, e quindi di buon auspicio, unisce le mani degli sposi, di fronte ai sacerdoti e a dei testimoni, a dimostrazione della funzione anche sociale del matrimonio. Uomini e divinità sono dunque chiamati a testimonianza di un fatto, lo si ripete, di cui è piuttosto chiara l’importanza. 

In verità, però, se andiamo a scavare in profondità, scopriamo che anche la monogamia romana, forse la più solida nel mondo antico, era inficiata da mille eccezioni: il maschio, per esempio, poteva andare tranquillamente con le schiave, senza che ciò costituisse uno scandalo neppure per la moglie; inoltre poteva ripudiare la moglie per una serie piuttosto abbondante di motivi. Così anche la monogamia ebraica era quasi una finzione, in quanto le scuole rabbiniche potevano ampliare a dismisura la possibilità del ripudio, permettendo così agli uomini di sposare, in successione, molte e molte donne. Non solo: anche la poligamia era piuttosto praticata. 

Se torniamo a Roma, in età imperiale, cioè all’epoca di Cristo, e poi nei secoli di graduale affermazione del cristianesimo, i costumi sono precipitati. Tutti gli storici sono concordi nel rilevare che la monogamia, già dissolubile, dell’età repubblicana, è in grave crisi. La durata media dei matrimoni è sempre minore; i divorzi sono sempre di più; persino la cerimonia nuziale, in perfetto accordo con la graduale diminuzione del senso del coniugio, è divenuta semplice, veloce, quasi banale. Ormai, come scrive Igino Giordani nel suo capolavoro, “Il messaggio sociale del cristianesimo”, «per divorziare non occorrevano forme complicate. Come per sposare. Bastava un avviso a voce o per iscritto o per messaggio»; tutto era più semplice rispetto al passato repubblicano e il divorzio «divenne una piaga che incancrenì l’istituto del matrimonio e logorò la famiglia». 

Il grande Seneca, un contemporaneo di Gesù, scrive che ormai le persone «divorziano per sposarsi e si sposano per divorziare». Giovenale, nel I secolo dopo Cristo, ricorda il nome di una donna che si è sposata 8 volte in 5 anni, mentre Marziale descrive la crisi del matrimonio contemporaneo citando Telesilla, con i suoi 10 mariti. Il grande storico romano Carcopino, nel suo La vita quotidiana a Roma, ribadisce il concetto: il divorzio in età precristiana, a Roma, era raro, in età imperiale estremamente diffuso. Anche perché, come ricorda la storica Eva Cantarella, nel suo L’ambiguo malanno, alla possibilità del divorzio richiesto dal marito, con la donna di solito come vittima impotente, si era andata affiancando la possibilità che a divorziare fossero anche le donne. 

Dato di fatto incontestabile: all’arrivo di Cristo e nei secoli successivi nell’impero romano il matrimonio e la famiglia erano in crisi più che mai; una crisi che si riversava anche sulla società e che finiva anche per avere ripercussioni demografiche. In questo contesto, per citare ancora la Cantarella, la predicazione di Cristo sul matrimonio indissolubile fu senz’altro ben poco “realistica” e alquanto “rivoluzionaria”. Tanto più che per i pagani il matrimonio durava sinché dura la volontà di stare insieme, mentre i cristiani “prendevano in considerazione la sola volontà iniziale, fissandola per così dire nel tempo, e solo ad essa attribuendo valore determinante”. 

Di qui le legislazioni degli imperatori cristiani, che piano piano cominciarono a limitare i divorzi, imponendo «per la prima volta, una casistica di circostanze che li giustificavano». 

Quanto all’insegnamento e all’educazione cristiani, un apologeta come Giustino nella sua Apologia per i cristiani del II sec. d. C espone il pensiero tradizionale della Chiesa, condannando le seconde nozze e il divorzio dei suoi contemporanei e invitando a rispettare in toto l’insegnamento di Cristo. Che certamente non si impone facilmente, soprattutto presso i ceti più alti. Sembra per esempio che Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, sia stato il primo sovrano franco ad avere una sola moglie, meritandosi anche per questo l’appellativo di “Pio”.

Nel corso dei secoli seguenti la Chiesa si batterà in ogni modo anzitutto per insegnare l’importanza e la grandezza dell’indissolubilità matrimoniale, nello stesso tempo per difenderla, soprattutto dalla prepotenza maschile. Tutti ricordano che per questa posizione intransigente si arrivò persino ad uno scisma, quello con l’Inghilterra di Enrico VIII, quando sarebbe bastato annullare le nozze del re inglese, o concedergli il divorzio da Caterina, per scongiurarlo. 

Ma i casi simili sono moltissimi. Ricordava infatti lo storico Jacques Le Goff su Avvenire (21/1/2007): “Si dice spesso che in caso di adulterio non vi è uguaglianza fra uomo e donna. Ora, in un certo numero di casi molto particolari, e spesso molto famosi, l'uomo è stato severamente condannato dalla Chiesa, pensiamo al re di Francia Roberto il Pio o a Filippo Augusto. Roberto il Pio, nei primi anni dell'XI secolo, dovette separarsi dalla seconda moglie, Berta di Blois, poiché il clero lo considerava bigamo (la prima moglie era ancora viva) e incestuoso (i due erano consanguinei in terzo grado). Il papa Innocenzo III, invece, eletto nel 1198, lanciò l’interdetto contro il regno di Filippo Augusto, che aveva ripudiato nel 1193 la moglie, Ingeborg di Danimarca, e aveva sposato Agnese di Merania. Negli statuti urbani del XII secolo in Italia e del XIII in Francia, si trovano articoli sulla punizione dell’adulterio che prevedono dure pene sia per gli uomini che per le donne. Così, ad esempio, le Consuetudini di Tolosa del 1293, che raccomandano e illustrano in un disegno la castrazione di un marito adultero…”.

Possiamo citare un altro caso interessante, che ci dice di come l’indissolubilità sia stata per la Chiesa una verità non negoziabile, neppure con i più potenti. Come nel caso di Teutberga. Racconta lo storico Robert Louis Wilken, nel suo I primi mille anni, riguardo al papa Niccolò I: «In un famoso confronto sfidò il re Lotario II di Lotaringia, che aveva divorziato dalla moglie Teutberga perché non gli aveva dato un erede maschio. Quando gli arcivescovi di Colonia e Treviri giunsero a Roma con i verbali di un sinodo che aveva riconosciuto la validità del divorzio, Niccolò scomunicò i due vescovi. Per tutta risposta l’imperatore Ludovico II (fratello di Lotario, ndr) fece marciare le sue truppe su Roma, accusando Niccolò di ‘volersi ergere a ‘imperatore del mondo’. Il papa però fu irremovibile e alla fine Lotario dovette accettare Teutberga come sua legittima consorte». 

Ora, a parte notare quanto gesti come questo, ripetuti molte volte nella storia, abbiano significato per la difesa della dignità femminile, spesso esposta, in passato, alla maggior forza maschile, si può concludere questa breve rassegna storica attualizzandola: anche oggi un prelato tedesco vorrebbe cambiare la dottrina, sostenuto anche dai Lotari di oggi (il potere mediatico ecc). Ma Roma è Roma, e non può mutare dottrina. Non per “cattiveria” verso i divorziati risposati, ma per fedeltà a Cristo e per il bene delle generazioni future: alle quali è opportuno tornare ad insegnare la grandezza e la felicità insita nell’amore per sempre. È tempo, certo, di sanare ferire e curare i sofferenti (questo il compito pastorale che si può certamente profilare per il futuro), ma anche di costruire piano piano, dalle rovine di questo vecchio mondo, una nuova civiltà, più umana perché più cristiana. Rammentando san Paolo, quando parla dell’amore (anche quello coniugale, ovviamente): «L'amore è paziente, è benigno l'amore; non è invidioso l'amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L'amore non avrà mai fine».