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ELEZIONI AMMINISTRATIVE

Faide nel Pd e liste nere. E' "giuristocrazia"

La lista dell'antimafia con i nomi degli "impresentabili", annunciata da Rosy Bindi proprio l'ultimo giorno di campagna elettorale, è una vendetta della minoranza dem del Pd contro Renzi e i suoi candidati. Sperano che il Pd subisca un calo e perda regione, per subentrargli. Ed è il trionfo del giustizialismo nella politica.

Politica 31_05_2015
Rosy Bindi

Oggi quasi 22 milioni di elettori saranno chiamati alle urne per rinnovare le amministrazioni di sette regioni e 1060 comuni. Ma i riflessi del voto si avvertiranno sull’intero quadro politico nazionale. Questa è una certezza che nessuna forza in campo nega, soprattutto dopo gli ultimi veleni sparsi sulle urne dalla diffusione della lista degli “impresentabili” da parte della commissione antimafia. Poco importa se ieri il Presidente del Consiglio, intervenendo al Festival dell’economia di Trento, secondo alcuni violando il silenzio imposto dalla legge, ha respinto l’idea che il voto di oggi possa trasformarsi in un referendum su di lui. 

L’iniziativa dell’organo parlamentare presieduto da Rosy Bindi ha trasferito il dibattito sulla questione morale dal terreno della consueta dialettica partitica a quello, più delicato e complesso, degli equilibri istituzionali. Quella lista, ammesso che abbia un suo senso e una sua legittimità, andava diffusa al momento della compilazione delle liste, per escludere fin dall’inizio eventuali “impresentabili”. Farlo l’ultimo giorno di campagna elettorale è apparso fuori luogo, sia perché i 16 finiti nella lista di “proscrizione” dell’antimafia, così come i partiti di riferimento, non hanno la possibilità di esercitare il diritto costituzionale di difesa (non possono replicare in quanto obbligati al silenzio elettorale che scatta 48 ore prima del voto), sia perché appare risibile additare come “impresentabili” 16 candidati su 4000, quasi che tutti gli altri siano, per converso e automaticamente, casti e immacolati. 

Di qui l’irritazione di tutti i partiti, ma in particolare di Renzi, che ha interpretato la lista dell’antimafia come la vendetta di Rosy Bindi nei suoi confronti. La Bindi ha subito ottenuto il plauso di Bersani, Fassina, Civati e altri dissidenti dem, a riprova del fatto che, tra gli effetti del risultato elettorale, ci sarà anche una resa dei conti tra le anime del Pd. La Bindi ha servito al premier una polpetta avvelenata: giovedì Renzi aveva pronosticato che nessun “impresentabile” della lista dell’antimafia sarebbe stato eletto; il giorno dopo, la Bindi ha ufficializzato i nomi e si è scoperto che tra i 16 c’era anche De Luca, per il quale invece Renzi si è assai speso in campagna elettorale. Peraltro De Luca è stato attenzionato dall’antimafia, non già per la condanna di primo grado per abuso d’ufficio, che lo rende ineleggibile in base alla legge Severino, bensì per una ipotesi di concussione risalente a oltre 15 anni fa, vicenda che forse gli elettori di De Luca non conoscevano o avevano dimenticato. Un vero dispetto, quindi, ai danni dell’ex sindaco di Salerno e, di riflesso, nei confronti dei renziani che lo difendono, pur con crescente imbarazzo, al di là delle apparenze. Renzi ha attaccato la Bindi parlando di uso distorto della commissione antimafia per “regolare i conti nel Pd”, il capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, ha denunciato la “pura barbarie politica” dell’iniziativa dell’antimafia e il presidente del partito Matteo Orfini ha denunciato il modo di fare “processi nelle piazze aizzando le folle”.

Rosy Bindi

Al contrario, per gli esponenti della “ditta”, che possono contare su una consistente pattuglia di parlamentari, questa vicenda rappresenta il secondo tempo della battaglia ingaggiata da tempo con la segreteria nazionale: Renzi ha forzato la mano su Italicum, jobs act, scuola, ora la minoranza interna gli rende pan per focaccia, rovinandogli l’immagine prima del voto regionale.

E la vendetta dei dissidenti Pd potrà dirsi consumata fino in fondo se il partito prenderà meno voti rispetto alle europee di un anno fa e perderà anche soltanto una delle regioni attualmente amministrate dal centrosininistra, oltre che il Veneto e la Campania. In passato sia D’Alema che Veltroni, il primo come premier il secondo come segretario del Pd, furono costretti a dimettersi proprio a causa di un insuccesso alle elezioni regionali. Oggi Renzi appare più forte di loro, considerata la mancanza di avversari davvero credibili, se si eccettuano i populismi di Grillo e Salvini, e deve stare attento solo agli avversari interni, che covano forte risentimento verso di lui, lo ritengono autoritario e puntano a ridimensionarlo con un insuccesso in Liguria e Campania.

Ecco perché i tre parametri di valutazione dell’esito del voto di oggi saranno: livello di astensione, percentuale del Pd su base nazionale, numero di regioni conquistate.  Un anno fa, alle europee, forse anche grazie al bonus degli 80 euro, i renziani riuscirono a riportare alle urne molti elettori disillusi o che in passato avevano votato in altro modo e il Pd raggiunse la percentuale record del 40,8. Oggi sarà difficile bissare quel successo, ma è importante capire di quanto il risultato finale si discosterà da quella soglia. Più lo scarto sarà elevato più la minoranza interna avrà buon gioco nel rinfacciare a Renzi i suoi errori. Viceversa, se il segretario dovesse andare oltre il 37-38%, e, soprattutto, se dovesse conquistare anche la Liguria, partirebbe lancia in resta per mettere definitivamente con le spalle al muro la minoranza interna imponendo la sua linea.

E’ la conferma che ormai ci sono due Pd: uno maggioritario, che si riconosce nel rinnovamento renziano e che guarda al centro e alla disgregazione del centrodestra; uno minoritario, che guarda a sinistra e che aggrega tutta la vecchia guardia e alcune nuove leve come Speranza e Fassina. 

Ma al di là di come andranno le elezioni di oggi, le parole più calzanti per fotografare quanto accaduto nelle ultime 48 ore le ha pronunciate l’ex presidente della commissione antimafia, Luciano Violante: “I partiti, prima con la Severino e poi con il codice dell’antimafia, hanno rinunciato alla propria autonomia e si sono consegnati al casellario giudiziario, all’autorità di polizia, agli avvocati, ai magistrati. Ecco, questa è la giuristocrazia, pericolo per la democrazia”. Ed è assai probabile che le lacerazioni dentro il Pd e le eventuali scissioni di alcune sue componenti scoppieranno anche sulla questione morale e sulla dialettica tra giustizialisti e garantisti. Ancora poche ore e il quadro sarà più chiaro.