Europa tra sirene cinesi e necessità di ripensare l'economia
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Lo shock provocato dall'imposizione dei dazi da parte di Trump rivela la posta in gioco nel conflitto commerciale: prendere atto del fallimento di un modello di globalizzazione e la necessaria ricostruzione economica dell'Occidente fondata su valori comuni. Ma le élites europee sembrano invece attirate dal modello cinese.
Dopo i fuochi d'artificio conflittuali scatenati nel mondo dalla politica di dazi varata da Donald Trump all'inizio di aprile, col passare dei giorni sempre più si chiariscono i termini reali del problema di cui quell'iniziativa non è la causa ma il sintomo.
Siamo di fronte non soltanto al tramonto della globalizzazione "a trazione cinese", come l'abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, ma al redde rationem tra due grandi poli dell'economia globale, e due modelli di sviluppo: Washington e Pechino. Un redde rationem che non è meramente economico, ma anche politico e culturale, e il cui esito influenzerà in misura decisiva gli equilibri futuri del mondo.
L'alternativa che questo conflitto pone davanti alle classi dirigenti dell'Occidente intero è, in sintesi, la seguente: è possibile continuare a esistere come società fondate sulla libertà e la dignità umana diventando al tempo stesso pressoché completamente dipendenti dai beni prodotti in un Paese governato da una dittatura, da un sistema capillare di controllo sociale e censura? È possibile mantenere in piedi democrazie liberali in Paesi in cui solo una ristretta élite ipertecnologizzata può aspirare alle gratificazioni materiali e morali derivanti dal proprio lavoro, mentre la stragrande maggioranza della popolazione è condannata alla deindustrializzazione e alla de-occupazione, a una vita da lavoratori "alla cinese" e consumatori low cost, in sharing, sostenuta da debiti e sussidi, dagli orizzonti limitati e dalle prospettive di crescita invisibili?
Davanti a questi dilemmi l'unica risposta sensata è quella che – in maniera efficace o meno lo dirà il futuro – sta tentando di offrire l'amministrazione Trump: il tentativo di ricostruire un sistema economico in cui, non abbandonando le prospettive di sviluppo offerte dall'hi tech, tornino in stretta connessione la produzione manifatturiera, i redditi e i consumi. E in cui la bilancia commerciale venga riequilibrata e l'economia reale riprenda il sopravvento sulla grande finanza.
L'economia non è un mondo astratto che vive di una logica propria, impermeabile alle altre sfere della vita umana. La globalizzazione degli scambi come l'abbiamo conosciuta non è stata lo sbocco obbligato della storia, ma l'assetto economico prevalente in una specifica fase storica, a partire da uno specifico contesto. Essa è stata strettamente connessa a scelte politiche e a orientamenti culturali. Nella fattispecie, alla decisione di gran parte delle élites occidentali di ammettere la Cina nel WTO e dunque nel club delle economie di mercato a pieno titolo, sperando in una sua evoluzione liberaldemocratica e nell'apertura del mercato dei consumatori cinesi alle merci occidentali. Le cose sono andate, come è noto, molto diversamente. Quella svolta ha prodotto uno spostamento drammatico del potere economico e politico mondiale verso Pechino, e un altrettanto drammatico squilibrio delle società industrializzate "opulente" da un lato e dall'altro dell'Atlantico.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che è possibile costruire un sistema stabile di profonda interdipendenza e integrazione economica internazionale soltanto se tra i Paesi che lo compongono sussiste una comunanza di fondo intorno a un modello di società, a un tessuto politico-istituzionale e giuridico, e in definitiva a un modello di cultura e di civiltà, a una visione del mondo e dell'essere umano. Sarebbe dunque realistico, prendendo atto dei contraccolpi portati dalla globalizzazione, tentare di ricostruire un'area sostenibile di integrazione economica, con il minimo possibile di barriere e protezionismi, tra i Paesi occidentali. Un'area che riprenda e porti avanti lo stadio di coesione raggiunto già dall'Occidente durante la guerra fredda, ed elimini i vincoli soffocanti dell'iper-regolamentazione e le pesanti zavorre ideologiche dell'ambientalismo apocalittico che condannano alla decrescita infelice. In cui il rientro massiccio di produzione e investimenti delocalizzati, un abbattimento della pressione fiscale, la liberazione della ricerca di fonti di energia e materie prime, una lotta intransigente all'immigrazione illegale ricostruiscano la fiducia nell'occupazione e nell'"ascensore sociale", la rinascita demografica, il ricongiungimento tra economia e comunità. Un'area naturalmente non chiusa in se stessa, ma aperta alla negoziazione di patti di scambio e collaborazione con altre aree del globo, a partire da quelle caratterizzate da elementi più simili. E tuttavia dotata di un ubi consistam che ne consenta uno sviluppo ordinato e coerente nel tempo, e che le permetta di inserirsi con autorevolezza nel contesto di un mondo inevitabilmente multipolare e plurale, sia dal punto di vista economico che da quello politico.
Ma proprio la percezione del senso di questa transizione, e del suo auspicabile approdo, è quello che sembra mancare nella valutazione di gran parte delle classi politiche europee – sia i vertici dell'Ue che molti leader nazionali - del grande processo di ridefinizione economica globale innescato da Trump. Le loro reazioni generalmente stizzite e offese e le loro minacce di ritorsioni testimoniano una sostanziale incomprensione della posta in gioco, e degli interessi di lungo periodo del vecchio continente. Esse, così come i media mainstream e gran parte degli intellettuali dei loro Paesi – sembrano guardare alla globalizzazione egemonizzata dall'Asia come a un modello inevitabile e benefico, e addirittura sembrano ritenere auspicabile un'intensificazione dei rapporti di scambio con Pechino, contrapposta a barriere più alte nei confronti di Washington. Una situazione che, apparentemente salvando qualche produzione tedesca e francese, distruggerebbe in realtà definitivamente ciò che resta dell'industria europea, privandola dei suoi principali consumatori e vincolandola alle merci di un fornitore che ne diventerebbe fatalmente il dominatore politico.
Ma il punto è proprio questo: la classe politica europea dopo la guerra fredda ha manifestato una crescente inclinazione al relativismo radicale e all'opportunismo, una mancanza di consapevolezza delle radici di civiltà del proprio modello di società che le fa ritenere in fondo pressoché equivalente il mantenimento di un legame organico con gli Stati Uniti e la subordinazione alla Cina. Le roboanti professioni di atlantismo e di difesa della libertà dispiegate a favore dell'Ucraina contro la Russia di Putin, dipinta quasi come una distopia totalitaria, si rovesciano da un giorno all'altro in anatemi antiamericani, e in segnali inquietanti di apertura incondizionata verso il più potente regime dittatoriale al mondo, del tutto incompatibile con la cultura liberaldemocratica occidentale, e peraltro oggi principale protettore proprio di Putin.
Tra i governanti del continente quasi soltanto la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni fa eccezione, cercando di salvare e rinsaldare l'essenziale raccordo con gli Stati Uniti, e patrocinando l'idea dello "zero a zero", dell'integrazione organica tra le due sponde dell'Atlantico. C'è da augurarsi che la sua visita a Washington contribuisca a riorientare in tal senso un'Europa sempre più smarrita e alla deriva.