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CONTINENTE NERO

Etiopia, Burundi: sovranità non fa rima con libertà

L'Etiopia e il Burundi stanno reprimendo vaste proteste al loro interno. E nel farlo affermano la loro sovranità nazionale contro ogni protesta internazionale. Gli anti-colonialisti hanno sempre attribuito l'arretratezza e la repressione degli Stati africani al "neo-colonialismo". Adesso non hanno nulla da dichiarare.

Esteri 19_10_2016
Burundi, polizia in azione

Chi ritiene che tutti i mali dell’Africa derivino "da indebite, intollerabili interferenze straniere e che, finita l’era coloniale europea, neocolonialismo e imperialismo occidentale abbiano tuttavia continuato a impedirne lo sviluppo", si rallegri. Sempre più leader africani resistono alle pressioni internazionali, orgogliosamente difendono la sovranità nazionale, non più intimiditi e vincolati dai ricatti delle ex potenze coloniali e dai richiami internazionali. 

In Etiopia, ad esempio, il 9 ottobre il governo del primo ministro Hailemariam Desalegn, nonostante le rimostranze di Stati Uniti e Unione Europea, ha dichiarato lo stato di emergenza per i prossimi sei mesi in risposta all’intensificarsi delle manifestazioni di protesta da parte delle etnie Oromo e Amhara. Né intende impedire alle forze dell’ordine di intervenire con decisione per disperdere i dimostranti qualora si renda necessario. Gli scontri tra agenti e manifestanti sono già costati la vita a più di 500 persone negli ultimi 11 mesi, denunciano le associazioni per i diritti umani, e il governo non lo esclude: “il punto non sono i numeri – ha spiegato il premier Desalegn l’11 ottobre durante una visita del Cancelliere tedesco Angela Merkel – il punto è che dobbiamo reagire in maniera proporzionale alla violenza dei gruppi estremisti”. Il Cancelliere Merkel ha raccomandato di non reprimere le proteste. Nei giorni successivi sono state arrestate più di mille persone sospettate di aver partecipato alle manifestazioni svoltesi vicino alla capitale Addis Abeba. Con lo stato d’emergenza, tra l’altro, ai diplomatici stranieri è imposto di non allontanarsi più di 40 chilometri dalla capitale, sono proibiti le proteste in tutte le scuole e i sermoni a contenuto politico in tutte le istituzioni religiose. 

Oromo e Amhara, le due etnie più grandi, protestano, non per la prima volta, perché ritengono di essere emarginate e discriminate dal governo che dal 1991 è controllato dall’etnia minoritaria Tigré. Alle ultime elezioni politiche, nel 2015, la coalizione elettorale già detentrice della maggioranza assoluta si è aggiudicata tutti i 547 seggi parlamentari. Tuttavia il governo attribuisce i disordini in corso a nemici esterni, in Egitto e in Eritrea, che avrebbero fomentato le proteste, armato, addestrato e finanziato l’opposizione.  

Anche il Burundi respinge ormai ogni ingerenza. Il paese è in difficoltà con la comunità internazionale da quando nell’aprile del 2015 il presidente Pierre Nkurunziza ha deciso di candidarsi alla carica per la terza volta, violando la costituzione che limita a due i mandati presidenziali che un cittadino può svolgere. Le manifestazioni contro la sua candidatura sono state represse brutalmente dalle forze di polizia che hanno più volte sparato ad altezza d’uomo. Rieletto nel luglio del 2015, come era prevedibile dato il clima di intimidazione creatosi, Nkurunziza ha infierito sull’opposizione duramente. Dall’aprile 2015 si contano oltre 400 vittime civili e circa 200.000 profughi, in parte sfollati e in parte fuggiti nei paesi vicini. La comunità internazionale ha reagito con vive proteste e ripetute richieste di consentire ispezioni su mandato delle Nazioni Unite per verificare le accuse di gravi violazioni dei diritti umani rivolte al governo. Inoltre l’Unione Africana ha proposto l’invio di proprie truppe a tutela della popolazione e della pace. Nkurunziza ha respinto tutte le iniziative. Non solo. L’11 ottobre, dopo aver proibito il giorno prima a tre ispettori Onu di entrare nel paese, ha annunciato la sospensione di qualsiasi forma di collaborazione con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Poi, il 12 ottobre, in risposta alla decisione della Corte penale internazionale di aprire un’inchiesta sui crimini commessi in Burundi, il parlamento ha votato a larga maggioranza il ritiro dalla Corte stessa, alla quale il paese aveva aderito nel 2004. Nel dare l’annuncio il vice-presidente Gaston Sindimwo ha detto: “abbiamo capito che il ritiro si è reso necessario affinché il Burundi riacquisti la propria sovranità. Siamo pronti ad affrontare le conseguenze del nostro ritiro”. 

L’Etiopia rischia di vedersi tagliare gli aiuti, inclusi i 500 milioni di dollari appena promessi da Banca Mondiale, Gran Bretagna e Unione Europea per la realizzazione di due poli industriali che dovrebbero servire a creare 100.000 posti di lavoro. Per il Burundi rinunciare al sostegno internazionale potrebbe voler dire perdere il 40% del proprio bilancio. 

Tutto sommato però i colleghi africani di Nkurunziza non gli danno torto e anzi dicono che la pretesa di porre un limite al numero di mandati che un africano può ricoprire è addirittura antidemocratica. Quanto alla Corte penale internazionale, più volte la stessa Unione Africana ha protestato che l’istituto tratta gli africani ingiustamente. Il mese scorso, infine, mentre era a New York per la 71° Assemblea Generale dell’Onu, il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha rivelato che gli stati africani presenti hanno discusso la possibilità di lasciare le Nazioni Unite. Solo qualche vile presidente si è detto preoccupato delle ritorsioni occidentali, ha detto il presidente: “ma dobbiamo essere coraggiosi se vogliamo prendere il toro per le corna e mirare in alto”.