Esterno notte, tante bugie d'autore sul caso Moro
"Esterno notte", la serie Tv sul caso Moro diretta da Marco Bellocchio, ripete una serie di forzature ed errori storici tipici del regista (ex militante maoista). Occhio molto indulgente sui terroristi delle BR, mentre tutte le colpe sono riversate sulla sola Democrazia Cristiana. Assente del tutto anche un giudizio sul ruolo del PCI.
Diceva Cossiga che "quando la Storia non combacia con le proprie scelte ideologiche si esercita la fantasia e si ha quella specifica forma di storia che si chiama dietrologia". E' l'impressione che suscita la visione di Esterno notte, la serie sul caso Moro andata in onda la scorsa settimana in prima serata su Raiuno. Proprio l'ex presidente della Repubblica, il solito Giulio Andreotti e la Democrazia Cristiana sono finiti sul banco degli imputati del prodotto televisivo realizzato da Marco Bellocchio. Dietro il paravento furbesco della "rielaborazione artistica e creativa degli autori" è stata propinata a milioni di spettatori, sulla prima emittente della televisione pubblica italiana, una narrativa complottista della tragedia dello statista di Maglie. Quella in base a cui, per intendersi, a non volere Moro libero sarebbero stati soprattutto i suoi compagni di partito Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e, obviously, gli immancabili amerikani.
La serie, come tante altre operazioni cinematografiche, televisive e saggistiche che si sono viste sui 55 giorni più angoscianti della storia repubblicana, è zeppa di amnesie, forzature e scorrettezze. Fa parte di quest'ultima categoria la scena in cui Bellocchio immagina un Moro appena liberato, sdraiato su un letto d'ospedale ai cui piedi vegliano Cossiga, Andreotti e Zaccagnini mentre in sottofondo la voce dell'attore che lo interpreta (molto bene) legge il durissimo finale del memoriale, quello in cui manifesta la sua "completa incompatibilità con la Dc" e al contrario riconosce "la generosità delle Brigate rosse" per la "restituzione della libertà". Quello di Moro rilasciato dalle Br che così facendo mettono a nudo le presunte responsabilità della Democrazia Cristiana è un vecchio pallino del regista già messo in scena nel film del 2003 Buongiorno notte. Ma quelle parole scritte dal grande politico pugliese, alla luce di quanto accaduto, non sono altro che la testimonianza più eclatante della crudeltà con cui i terroristi rossi trattarono il loro prigioniero, lasciandogli credere per un momento che lo avrebbero lasciato tornare dalla sua famiglia salvo poi comunicargli la notizia dell'ordine di esecuzione. Altro che il rispetto e le premure rappresentate in Esterno notte (e prima ancora in Buongiorno notte): i brigatisti si presero gioco nella maniera più atroce del loro prigioniero, lo illusero e poi lo eliminarono nel peggiore dei modi, infierendo con dodici proiettili e lasciandolo morire dopo una lunga agonia.
L'occhio troppo indulgente con cui vengono raccontati i brigatisti è un altro dei limiti della serie tv al punto che la responsabilità dell'organizzazione terroristica nel rapimento e nell'uccisione di Moro appare quasi sfumata. Lo si nota anche nel finale quando, quasi a voler suscitare l'indignazione dello spettatore, si ricordano i successivi traguardi politici dei due "cattivi" della storia, Francesco Cossiga e Giulio Andreotti. Al tempo stesso, però, non si fa cenno a cosa ne è stato dei brigatisti che presero parte alla cosiddetta operazione Fritz: gli unici nominati sono i "postini" Valerio Morucci e Adriana Faranda, ma per sottolinearne la dissociazione in carcere. Nella carrellata finale, però, nessuna menzione della latitanza non ancora interrotta di Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri o del mai pentito e mai dissociato Mario Moretti in semilibertà dal 1997.
Così come il regista, già simpatizzante del gruppo extraparlamentare maoista Unione dei Comunisti Italiani, avrebbe potuto risparmiare allo spettatore quella colonna sonora che accompagna L'internazionale intonata nell'aula del processo al nucleo storico delle Br a Torino. La sensazione del "compagni che sbagliano", insomma, accompagna pericolosamente la visione di questa serie tv. La grande colpevole è la Balena Bianca che porta la croce dell'epilogo tragico per aver sposato la linea dell'intransigenza. Ma non si capisce perché questa responsabilità vada ascritta esclusivamente al partito di piazza del Gesù mentre del Pci si faccia accenno frettolosamente in un incontro tra i leader politici. In realtà, sappiamo che i principali sostenitori del no ad ogni trattativa stavano proprio a Botteghe Oscure al punto che, quando nella Dc si aprirono le prime crepe e lo stesso Andreotti diede il suo via libera ad individuare un canale tramite la Croce Rossa Internazionale ed Amnesty International, fu Ugo Pecchioli, ministro dell'Interno ombra del PCI, a piombare nell'ufficio di Cossiga ed ad intimargli di fermarsi. Sempre Pecchioli, come raccontò il suo amico Cossiga anni dopo, commentò la prima lettera del prigioniero con parole eloquenti: "che Moro esca vivo o che Moro esca morto, dopo questa lettera Moro è per noi politicamente morto". Se non si crede a Cossiga, basta recuperare le confessioni dell'allora presidente della Camera, il comunista Pietro Ingrao che ammetteva di aver avuto una "posizione netta perché non si accogliessero le sue (di Moro, ndr) richieste" difendendo "fino all'ultimo questa linea che del resto era quella di Berlinguer e del Pci". Con il passare degli anni la fermezza comunista è finita nel dimenticatoio e quella posizione - peraltro assolutamente legittima - è stata storicamente addebitata alla sola Dc ed in particolare al duo Andreotti-Cossiga. Ma persino Indro Montanelli, che non fu mai tenero con il sette volte presidente del Consiglio, ebbe a dire che "furono Berlinguer e La Malfa a decidere la sorte di Moro, non Andreotti. La Malfa per senso dello Stato, Berlinguer per ragioni più complesse".
Una certa narrativa ha continuato a sostenere negli anni che la morte di Moro sarebbe servita alla Dc e agli Stati Uniti per non dare vita alla formula del compromesso storico che lui aveva fortemente voluto, nonostante i dubbi di Washington (mai citati quelli di Mosca). In realtà, sappiamo che l'esperienza della solidarietà nazionale con il monocolore Andreotti capace di incassare la non opposizione del Pci era in vita già dal 1976 per intuizione dello statista pugliese. Due anni dopo, però, la situazione era cambiata: il governo della non sfiducia architettato da Moro andò in crisi sulle pressioni del Pci che voleva fare il salto di qualità e dei repubblicani di La Malfa che erano disposti ad aprire all'ipotesi di ministri comunisti. Lo statista pugliese in quel momento non era affatto il grande alleato di Berlinguer nella Dc ma, al contrario, si rivelò un ostacolo per le mire di Botteghe Oscure. Moro, infatti, prima si oppose all'ingresso di comunisti al governo, poi bocciò anche l'ipotesi di indipendenti di sinistra ed infine costrinse Andreotti - che aveva invece assecondato le richieste comuniste - a reinserire nella lista di ministri da presentare al Quirinale i nomi di Toni Bisaglia e Carlo Donat Cattin che Berlinguer aveva chiesto di sacrificare in nome del compromesso storico.
La mattina di via Fani, nel giorno in cui Andreotti presentava il suo quarto governo alla Camera, le acque nel gruppo del Pci erano piuttosto agitate: la notte prima nella sede de L'Unità erano state mandate al macero le copie già stampate che annunciavano l'esclusione dei due falchi anticomunisti dall'esecutivo. La fermezza di Moro aveva indotto la direzione del Pci a riaprire il dibattito e a valutare la possibilità di non votare la fiducia, come precedentemente concordato. La notizia della strage di via Fani cambiò tutto e convinse Berlinguer a riscrivere il discorso di fiducia, optando per una "fiducia obbligata" come ebbe a raccontare il notista parlamentare de L'Unità, Giorgio Frasca Polara. Senza Pci, non esisteva il governo Andreotti IV e questa circostanza sembrò determinante agli occhi del Moro prigioniero nell'adozione della linea dell'intransigenza e fu anche motivo di recriminazione nella famosa intemerata contro il suo compagno di partito definito "indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria" a cui rimproverò un'azione indirizzata a "voler non deludere i comunisti".
Allo stesso modo, appare interessante rileggere quanto il politico pugliese scrisse nel memoriale ritrovato nel covo di via Montenevoso a proposito della condotta di Cossiga nei 55 giorni. Scrisse Moro: "se dovessi esporre con una certa riservatezza il mio pensiero, direi che in questa vicenda mi è parso fuori di posto, come ipnotizzato. Da chi? Da Berlinguer o da Andreotti? Se posso avanzare una ipotesi, era ipnotizzato da Berlinguer piuttosto che da Andreotti con il quale lega a prezzo di qualche difficoltà". Dunque, i due "colpevoli" individuati nella serie di Bellocchio furono oggetto di critiche da parte del prigioniero proprio per la loro eccessiva cedevolezza di fronte alla fermezza del Pci. Ma di tutto questo non c'è traccia nella serie. Un'altra scena emblematica di questa dimenticanza è quella del ritrovamento del cadavere in via Caetani, quando il ministro Cossiga viene contestato dalla folla al grido di "dimissioni". Anche qui non si riportano per intero le grida di quei contestatori (che se la presero anche con il segretario della Cgil, Luciano Lama) descritti da alcuni cronisti presenti (Filippo Ceccarelli e Antonio Padellaro) a lanciare improperi contro Berlinguer.
Nella serie c'è poi la rappresentazione di un'improbabile Paolo VI intento a prendere indirettamente ordini dal suo ex figlio spirituale alla Fuci, Giulio Andreotti sulla scrittura del famoso appello agli "uomini delle Brigate Rosse" con la richiesta di liberare il prigioniero "senza condizioni". La debolezza di questo prodotto si vede anche nei dettagli più piccoli: in una scena si vede Giulio Andreotti ricevere monsignor Agostino Casaroli e chiamarlo "eminenza". Figurarsi se uno come lui, talmente abituato ai Sacri Palazzi da scherzare col neoeletto Giovanni XXIII dicendogli "mi permetta, Santità, ma lei non conosce il Vaticano", avrebbe potuto fare un errore così grossolano!