Espulsione delle gang venezuelane, scontro fra Trump e i giudici
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Braccio di ferro fra la corte federale di Washington e il presidente Donald Trump per i venezuelani accusati di essere parte della gang Tren de Aragua e per questo internati nelle prigioni del Salvador senza processo.

L’amministrazione Trump è ricorsa alla Corte Suprema per riprendere le espulsioni dei venezuelani, sospetti membri delle gang criminali. L’espulsione è stata bloccata temporaneamente da un tribunale federale e solo il massimo organo della magistratura statunitense può dirimere la controversia. Tutto il mondo è paese, insomma, non solo l’Italia è alle prese con il suo caso Albania.
Nel suo primo discorso programmatico alle Camere riunite del Congresso, il presidente degli Usa Donald Trump aveva annunciato lotta dura contro le gang criminali latino-americane e i cartelli della droga che terrorizzano gli Stati Uniti. Con un ordine esecutivo li ha posti sullo stesso piano degli jihadisti e promettendo di usare strumenti analoghi per combatterli. Ai tempi di Bush jr, dopo l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001, la scelta più controversa fu quella di saltare le ordinarie procedure giudiziarie e deportare i terroristi sospetti, senza processo, nel campo di detenzione di Guantanamo, base americana in territorio cubano. La nuova amministrazione sta facendo qualcosa di molto simile. Ha infatti raggiunto un accordo multi-milionario con il governo di El Salvador, noto per i suoi metodi durissimi (ma molto efficaci per stroncare la criminalità) e ha portato in quello Stato centinaia di venezuelani sospetti di far parte della potente e pericolosa gang Tren de Aragua.
Il 14 marzo, Trump, infatti, ha emesso un ordine di espulsione invocando l’Alien Enemies Act, una legge del 1798 che permette di espellere (in tempo di guerra) cittadini stranieri che agiscono per conto di una nazione ostile. Equiparando Tren de Aragua a un gruppo terrorista armato e collegato a una nazione ostile (il regime di Maduro in Venezuela), Trump ritiene che vi siano le condizioni per invocare una legge di guerra. Ma la magistratura non è d’accordo e il 15 marzo, il giudice federale di Washington James Boasberg, ha ordinato una sospensione di due settimane delle deportazioni per capire se effettivamente vi siano le condizioni per invocare un potere esecutivo da tempo di guerra ed evitare le normali procedure richieste dalla legge sull’immigrazione. E ieri l’amministrazione è ricorsa alla Corte Suprema. L’avvocato generale Sarah Harris ha dichiarato alla Corte Suprema che l’amministrazione Trump «ha un interesse schiacciante a rimuovere questi attori stranieri che il presidente ha identificato come coinvolti in guerre irregolari e azioni ostili contro gli Stati Uniti».
Il 16 marzo, il presidente salvadoregno Nayib Bukele ha scritto su X che i 238 «membri dell'organizzazione criminale venezuelana Tren de Aragua» erano stati portati al Centro di Detenzione del Terrorismo (Cecot), una struttura di massima sicurezza, dove sarebbero stati detenuti per almeno un anno. Dimostrando di avere una sensibilità che in Italia passerebbe per inumanità, la segretaria alla Sicurezza Interna, Kristi Noem, ha pubblicato un video e le foto dei prigionieri, rapati a zero, incatenati, umiliati e chiusi nelle enormi carceri salvadoregne. Ha mostrato quelle immagini, non solo come vanto per i risultati dell’ondata di arresti, ma anche come monito, contro gli altri “terroristi” ancora a piede libero negli Usa. C’è, insomma, il forte sospetto che l’amministrazione Trump abbia ignorato l’ordine del magistrato e abbia continuato ad espellere sospetti. Il giudice Boasberg sta cercando di determinare se il governo abbia rispettato la sospensione, ma il Dipartimento di Giustizia ha invocato il segreto di Stato, che consente alle autorità di evitare la divulgazione di notizie relative alla sicurezza nazionale, per negargli ulteriori informazioni. Giusto per aggiungere benzina sul fuoco del conflitto fra il potere esecutivo e quello giudiziario, Tom Homan, lo “zar” del confine, ha dichiarato alla Tv Fox: «Non ci fermiamo. Non mi interessa cosa pensano i giudici».
«Abbiamo giudici disonesti che stanno distruggendo il nostro Paese», ha dichiarato Trump in una recente intervista a Fox News. Su Truth Social, il presidente ha definito il giudice Boasberg un “pazzo della sinistra radicale” che dovrebbe essere messo sotto accusa. Ciò ha spinto il presidente della Corte Suprema John Roberts a ricordare a Trump che «per più di due secoli, è stato stabilito che l'impeachment non è una risposta appropriata al disaccordo su una decisione giudiziaria».
L’opinione pubblica americana che ha votato e tuttora sostiene Trump lo ha fatto proprio per espellere dagli Usa gente molto pericolosa, come i membri dei cartelli messicani o le gang criminali latino-americane. I Democratici, prendendosi a cuore la difesa di immigrati sospetti di far parte della Tren de Aragua o della salvadoregna MS-13, stanno preparandosi a rimanere all’opposizione molto a lungo. Ma al di là della popolarità o impopolarità di questa politica, esiste anche una questione di giustizia. C’è infatti il fondato sospetto che molti degli espulsi, ora internati in condizioni disumane, siano innocenti. E a dire il vero dovrebbe essere il contrario: si è innocenti fino a prova contraria.
Uno di questi casi è quello di Arturo Suárez Trejo, un cantante di 33 anni che stava cercando di costruirsi una carriera negli Stati Uniti ed è stato fra gli arrestati di febbraio. La sua famiglia non è riuscita neppure a garantirgli un giusto processo, anche se non ci sono prove di una sua filiazione a Tren de Aragua. Anche altre famiglie di deportati insistono sul fatto che i loro parenti non sono membri di alcuna organizzazione criminale e sono stati arrestati solo perché venezuelani e con dei tatuaggi. I tatuaggi sono, in alcuni casi, l’unico modo per riconoscere dei parenti internati in Salvador: solo così, in un buco informativo totale, i famigliari hanno saputo del loro trasferimento quando il governo salvadoregno e poi Kristi Noem hanno diffuso le prime immagini.