Espulsione dai Mondiali, la sagra delle banalità
L'espulsione della nazionale di calcio italiana dai Mondiali del Brasile ha scoperto il solito vespaio di polemiche calcistiche, infarcite da una massa di banalità che il più delle volte non sono vere. Meglio sfatare un po' di miti.
La Nuova Bussola Quotidiana non ha una pagina sportiva, e - benché tutti gli italiani o quasi presumano di capire di calcio - è bene che ognuno faccia il suo mestiere. Non intendo quindi intrattenere il lettore su questioni di giocatori, allenatori e schemi, di cui i giornali italiani sono pieni a proposito dell'eliminazione al primo turno dell'Italia dai mondiali brasiliani. Mi interessano invece gli articoli di fondo, dove anche giornalisti non sportivi si sono cimentati con il calcio, e le dimensioni economiche e sociali della crisi del movimento calcistico italiano. Qui mi muovo su un terreno più familiare, perché sociologi illustri - dal Brasile alla Germania - si sono cimentati con il football. E basterebbe leggerli per capire che quella che sta andando in onda sui nostri media dopo Italia-Uruguay è una vera sagra del luogo comune, della banalità e della sciocchezza. Esaminerò cinque tesi ripetute fino alla noia in questi giorni: tutte false, tutti luoghi comuni banali e infondati.
1. «Il calcio in Italia è in crisi perché i tifosi sono violenti»
È una bruttissima cosa che, mentre la nazionale perdeva la sua partita, un tifoso napoletano stesse morendo, e ci sono mille buone ragioni per affrontare seriamente il nodo della violenza che ruota intorno al calcio. Ma non è vero che questa c'entra qualcosa con i risultati dell'Italia. Sociologi dello sport come l'olandese Ramón Spaij, lo svedese Martin Alsiö e il britannico Richard Giulianotti hanno compilato tabelle sulla violenza calcistica, dando un peso preponderante ai morti ammazzati. Al primo posto in questa tragica classifica c'è l'Argentina e al secondo il Brasile. Occupano buone, cioè cattive, posizioni anche il Messico e la Nigeria, tutti Paesi le cui nazionali stanno facendo bene al mondiale. Sarà brutto dirlo, ma la violenza intorno al calcio non sembra incidere sui risultati. Va stroncata perché è una tragedia inumana e assurda. Ma non c'entra con le sconfitte della nazionale.
2. «In Italia i calciatori guadagnano troppo»
È il contrario: guadagnano troppo poco. Nella classifica di «Forbes» dei venti giocatori di calcio più pagati del mondo non c'è nessun italiano: anche il ventesimo, l'uruguayano Suarez - proprio lui, quello del morso - guadagna di più di tutti i nostri. Si potrebbe dire che i calciatori italiani guadagnano poco perché sono più scarsi: ma non sono certo che i tedeschi Schweinsteiger e Lahm siano più forti di Pirlo, eppure - a credere al bene informato «Forbes», che somma ingaggi e sponsorizzazioni - rispetto al nostro centrocampista Lahm guadagna il triplo e Schweinsteiger un po' più del triplo. Inoltre, nessuno dei venti giocatori più pagati al mondo gioca nel campionato italiano, il che rende le nostre squadre poco competitive nelle coppe europee, così che anche gli italiani che vi giocano hanno meno occasione di fare esperienze internazionali ad alto livello. Sempre secondo «Forbes» il monte ingaggi del Real Madrid e del Barcellona è quattro volte quello della Juventus, quello del Bayern Monaco è più del doppio. Anche chi allena in Italia è pagato meno di chi allena in Spagna, Inghilterra, Germania o in una squadra di vertice francese. Ed è retorica stucchevole sentire che ora va ingaggiato un allenatore della nazionale che costi poco. Se costa poco, varrà poco, il che è vero nel calcio come in ogni altro business - posto che il calcio è un business e ha smesso da decenni di essere un gioco. Un'altra autentica fesseria è che il calcio «dovrebbe pagare le tasse». Le nostre squadre pagano il doppio delle tasse rispetto a quelle spagnole. I risultati si vedono.
3. «In Italia giocano troppi stranieri»
Leggiamo la stessa argomentazione sui media dell'Inghilterra, nostra compagna di sventura e di eliminazione al mondiale. Secondo la maggiore agenzia di statistiche sportive del mondo, la OPTA, che non conta i tesserati ma i minuti giocati da stranieri nei campionati nazionali, il dato inglese è in effetti spettacolare: in Premier League i minuti giocati da calciatori inglesi sono solo il 32,3% del totale. Anche in Italia i minuti giocati da calciatori italiani sono meno della metà del totale - 45,4% - ma non siamo sostanzialmente lontani dal campionato tedesco (50%) e da quello francese (51,1%), eppure le nazionali tedesca e francese stanno andando molto meglio della nostra al mondiale. Quanto al monte ingaggi riservato a calciatori stranieri, la Spagna è al primo posto nel mondo. Infatti la Spagna ha toppato malamente il mondiale, dirà qualcuno. Senonché la percentuale di calciatori spagnoli che giocano nel maggiore campionato in Spagna non è diminuita, è aumentata rispetto a sei, quattro e due anni fa, quando la Spagna vinceva due europei e un mondiale. Può darsi che l'Inghilterra - che però in campo internazionale, salvo giocare in casa, ha sempre vinto poco - sia un caso estremo, ma la verità è che non importa tanto la quantità dei giocatori stranieri in un campionato ma la loro qualità. Giocando a fianco di Messi nel Barcellona o di Ribery nel Bayern Monaco si impara, giocando insieme a certi bidoni stranieri che popolano il nostro campionato non si ha nessuna occasione per migliorare. Ma noi importiamo più bidoni che campioni non per dabbenaggine, ma perché paghiamo meno degli altri principali campionati europei, il che ci riporta al punto precedente.
4. «In Italia non c'è vivaio»
La maggiore competizione giovanile del mondo è certamente il Campionato europeo Under 21. L'Italia è arrivata in finale nell'ultima edizione - perdendo con la Spagna. Anche nell'ultimo europeo Under 17 siamo arrivati in finale, perdendo solo ai calci di rigore con la Russia. Risultati alla mano, non sembra che i nostri vivai siano così scarsi. Semmai, rispetto a Francia, Germania e altri abbiamo una palla al piede burocratica. Questi Paesi sono rapidissimi nel concedere un passaporto ai giovani stranieri che si sono formati nelle squadre giovanili dei loro club. Noi no. Campioncini che sono stati allevati fin dall'età di quattordici o sedici anni dalle nostre società mantengono la nazionalità del Paese dove sono nati, e non esiste nessuna politica che permetta di fare seriamente e rapidamente eccezione alle regole generali per gli sportivi. Altrove c'è, e non si tratta di semplice furbizia. Se un giovane senegalese o argentino arriva in Italia a quattordici anni - ma talora arriva anche prima - e un nostro club si assume tutti gli oneri della sua formazione sportiva e scolastica non è evidente che debba poi giocare per la nazionale del Paese dov'è nato anziché per la nostra. Diamo la cittadinanza a vecchi giocatori spompati, ma non abbiamo nulla di simile alla politica che Francia e Germania adottano per i giovani calciatori nati all'estero, «naturalizzati» in tempi da record.
5. «In Italia ci lamentiamo sempre degli arbitri»
C'è del vero, ma - a parte il fatto che le nefandezze dell'arbitro di Italia-Uruguay hanno indotto agenzie di scommesse internazionali a restituire il denaro agli scommettitori, ed è una cosa che non si fa alla leggera -, basta leggere la stampa tedesca o francese per vedere come gli arbitri responsabili di qualche torto siano messi in croce, e si studi chi sarà l'arbitro anche preventivamente, alla ricerca di torti passati. È giusto dare la colpa anzitutto a noi stessi e solo dopo agli arbitri, ma il pessimo arbitraggio di Italia Uruguay richiama un problema più generale. L'Italia ha vinto quattro mondiali e il suo resta nonostante tutto uno fra i cinque campionati più seguiti al mondo, ma la nostra federazione non conta niente. Ci danno un pessimo girone, ci fanno giocare a ore assurde e ci mandano gli arbitri peggiori. E non è la prima volta che succede. Il nostro governo calcistico purtroppo conta nel mondo come il nostro governo nazionale (l'India e i marò insegnano). Solo in questo senso è giusto guardare all'arbitro, che è la punta dell'iceberg della nostra irrilevanza sportiva e politica. E dire che una volta contavamo.