Erdogan è il peggiore? Esclusi tutti gli altri...
Domenica il premier turco vincerà ancora. S'impone il confronto costruttivo (e delicato) con il suo governo. Pur senza sconti indebiti.
Il 12 giugno si svolgeranno in Turchia importanti elezioni politiche, che vedranno contrapposti il partito di governo AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, che rappresenta la peculiare declinazione turca dell’islam politico, e l’opposizione laicista del Partito Repubblicano del Popolo (CHP) guidato dal nuovo leader Kemal Kilicdaroglu. La Turchia ha una soglia di sbarramento molto alta per entrare in Parlamento, il dieci per cento dei voti, criticata dall’Unione Europea ma concepita per tenere fuori i separatisti curdi. Con una soglia così alta, l’unico partito che ha possibilità di conseguire i seggi oltre ai due maggiori è il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), che rappresenta l’estrema destra.
A meno che tutti i sondaggi non siano clamorosamente sbagliati, si sa già chi vincerà le elezioni. Il successo dell’AKP di Erdogan è certo, ed è stato da ultimo favorito da un attacco del settimanale inglese Economist che ha incitato i turchi a votare per l’opposizione del CHP. In una Turchia dove le ferite della Prima guerra mondiale e dello smantellamento dell’Impero Ottomano non si sono mai rimarginate, anche elettori ostili a Erdogan si sono indignati per l’interferenza di un organo di stampa inglese, e il partito di governo ha guadagnato immediatamente un paio di punti nei sondaggi. Come si ricorderà, l'Economist non è nuovo a questi autogol: anni fa, un suo pesante attacco a Silvio Berlusconi finì per fare guadagnare voti anche al primo ministro italiano.
Economist a parte, la posta in gioco nelle elezioni turche non è la vittoria dell’AKP, che è scontata, ma il suo margine. Sarà interessante vedere se l’AKP riuscirà a mantenere lo strabiliante 47% delle elezioni del 2007 ovvero se, come i sondaggi prevedono, pur vincendo calerà di qualche punto. Se riuscisse addirittura a migliorare il risultato del 2007 - e soprattutto se solo due partiti superassero la soglia di sbarramento del dieci per cento, lasciando fuori il MHP - Erdogan potrebbe arrivare ai due terzi dei seggi, che gli permetterebbero di realizzare da solo, senza dovere reclutare deputati dell’opposizione o venire a compromessi, la riforma della Costituzione che è al centro del suo programma.
La Turchia è una democrazia ma la Costituzione assegna ancora un ruolo speciale alle Forze Armate, ritenute custodi della laicità dello Stato contro pericoli islamisti, e prevede estese limitazioni alla presenza pubblica della religione. Paradossalmente, è la stessa Unione Europea in cui la Turchia vuole entrare che considera queste clausole costituzionali incompatibili con i principi democratici, anche se molti in Europa temono che la modifica della Costituzione porti a una significativa islamizzazione della vita pubblica turca. I giornali europei, non solo l'Economist ma anche molti di centro-destra, fanno un tifo evidente per l’opposizione laicista del CHP, abbagliati anche dal nuovo leader Kilicdaroglu che offre agli elettori un volto più sorridente e un laicismo più moderato dei suoi predecessori, qualche volta senza vedere gli storici problemi del partito che verosimilmente lo porteranno a una nuova sconfitta elettorale. Si deve aggiungere che molti giornalisti europei si alimentano esclusivamente alle fonti della stampa turca in lingua inglese, in maggioranza schierata con il CHP, mentre il mondo accademico è più variegato e diviso.
Per capire la posta in gioco, ci vogliono come al solito un po’ di storia e un po’ di pazienza. Dal mio libro La Turchia e l’Europa. Religione e politica nell’islam turco (Sugarco, Milano 2006), e dal principale manuale accademico pubblicato negli Stati Uniti sul partito di Erdogan - The Emergence of a New Turkey: Democracy and the AK Party (University of Utah Press, Salt Lake City 2006) -, di cui sono coautore, vorrei ricavare tre categorie su cui riflettere: l’identità, il laicismo e l’islam politico. Il tema dell’identità è centrale in Turchia, perché l’identità "turca" è emersa molto lentamente. Nel 1803 un diplomatico ottomano, Halet Efendi (1761-1822), abbandonò la Francia rivoluzionaria dopo essere stato presentato come “ambasciatore turco”, dichiarando che non era mai stato offeso in quel modo in vita sua. Turco, a quell’epoca, significava nomade del Turkmenistan o abitante di villaggi arretrati dell’Anatolia. Per la verità, a quell’epoca non vi era neppure un’identità ottomana, ma piuttosto islamica. Se si fosse chiesto all’ambasciatore da quale Paese provenisse, avrebbe risposto semplicemente di essere musulmano, rappresentante di un sultano che nello stesso tempo, come califfo, rivendicava una giurisdizione su tutto l’islam.
Soltanto nell’Ottocento, sotto l’influenza di scambi sempre più intensi con l’Europa, emerse l’idea di patria, che, comunque, in origine, era ottomana, e che coincideva con un impero che comprendeva più di un centinaio di etnie e di lingue e che si estendeva dall’Arabia ai Balcani e alla Libia. Come un gentiluomo della corte di Vienna avrebbe parlato del suo patriottismo austro-ungarico, che era diverso dal nazionalismo austriaco o ungherese, così nella prima metà dell’Ottocento l’identità ottomana era differente da quella turca.
L’identità turca venne, paradossalmente, dall’Europa. Furono soprattutto gli esuli ungheresi, accolti a Istanbul, a diffondere idee sulla Turania, cioè su una grande unità di popoli, accomunati da una matrice linguistica comune, che va dalla Mongolia all’Ungheria e alla Finlandia. Essi, si diceva, rappresentavano gli eredi di popolazioni – gli unni, i turchi, poi i mongoli – che in tre diverse ondate, partendo dall’Asia Centrale erano riuscite a conquistare il mondo.
Nel clima dei nazionalismi esasperati diffusi in Europa nel XIX secolo, questi sogni "turanici" diventarono "panturanici" e si tradussero nell’idea di riconquistare tutte quelle terre che, in qualche modo, avevano fatto parte di un’unità etnica di tipo turco. Il passaggio dal “turchismo” al "panturchismo" - i cui corifei più fanatici, fra l’altro tutti affiliati alla massoneria, furono i principali responsabili anche del massacro degli armeni - fu poi criticato severamente da Kemal Atatürk (1881-1938) come sogno che aveva fatto molto male alla Turchia. L’ideologia "panturanica", anche se recupera elementi di cultura islamica, è sostanzialmente neopagana, inneggia a un'"epoca d’oro" delle popolazioni "turaniche" dell’Asia Centrale precedente al loro incontro con l’islam, ed è all’origine di movimenti talora collegati, con espressione più o meno felice, a un "fascismo turco". Tra questi ci sono i Lupi Grigi di cui faceva parte Ali Agca, l’autore dell’attentato del 1981 al beato Giovanni Paolo II (1920-2005). Ma la stessa ideologia è cruciale per capire anche il partito di estrema destra MHP.
Atatürk, invece, sosteneva un "nazionalismo ragionevole" che, dopo la disfatta nella Prima guerra mondiale, scongiurasse il rischio che la Turchia scomparisse, smembrata fra le potenze coloniali o ridotta a minimi termini territoriali. Con Atatürk, che era indubbiamente convinto della superiorità della cultura occidentale, emerse la quarta identità, europea, dopo quelle islamica, ottomana e turca. Queste identità oggi non si oppongono ma spesso coesistono. Mi è capitato di vedere in Turchia in botteghe e caffè insieme le immagini di Atatürk, del Corano e, con mia sorpresa, anche del beato Giovanni Paolo II, che ha colpito l’immaginario turco come uomo di dialogo e di amicizia fra le religioni.
La seconda parola chiave per capire la Turchia moderna è laicismo. Atatürk fu un grande laicizzatore. Abolì il califfato nel 1924 e promosse una serie di leggi che ridussero l’impatto della religione islamica: dal sequestro dei beni delle opere pie all’abolizione dei tribunali religiosi, la sostituzione del diritto di famiglia tradizionale con uno ispirato principalmente al codice svizzero e una gigantesca riforma dell’alfabeto, in base alla quale il turco abbandonò i caratteri arabi in favore di quelli latini, pur mantenendo alcune lettere proprie.
L’opera di Atatürk fu radicale e grandiosa, ma non si spiegherebbe se la Turchia non avesse già conosciuto, a partire dal Settecento, il dispotismo illuminato dei sultani riformatori, che, in realtà, osservando l’Europa e cercando di mettersi al passo con essa, avevano già operato elementi di separazione fra istituzioni religiose e istituzioni politiche. Si pensi all’abolizione del corpo dei giannizzeri, alla creazione di un’amministrazione dei beni religiosi, alla diminuzione del potere delle confraternite.
Non dobbiamo neppure confondere il laicismo di Atatürk con quello francese che gli fu contemporaneo, anche se il punto in comune è che sia il "padre dei turchi" sia i principali leader francesi dell’epoca frequentavano le logge massoniche. In Francia lo scopo era confinare la religione nella sfera esclusivamente privata, negandole ogni espressione pubblica. L’islam è per sua natura pubblico e Atatürk sapeva perfettamente che perseguire l’obiettivo "francese" era impossibile in Turchia. Il suo scopo non era tanto vietare l’espressione pubblica dell’islam, quanto portarla sotto il controllo di istituzioni dello Stato o, ancora meglio, convogliare e rafforzare in un Ministero degli Affari Religiosi quelle istituzioni di controllo che i sultani avevano già creato.
Le discussioni fervono sulle posizioni personali di Atatürk sull’islam. Le sue interviste sono abbastanza contraddittorie. In una alla famosa giornalista inglese Grace Ellison (1877-1935) disse che «avrebbe voluto vedere tutte le religioni sprofondare in fondo al mare». Ma in una predica tenuta nella moschea anatolica di Balikesir nel 1923 concluse il suo discorso dicendo: «Ogni persona ha una religione, soprattutto chi nega di averne una». Forse si riferiva in qualche modo anche a se stesso.
Terza categoria fondamentale: l’islam politico, che in Turchia conosce una fioritura a partire dagli anni 1950 - mentre prima era fuorilegge e doveva operare in clandestinità - con l’avvio di un cauto processo di democratizzazione. La matrice è quella dei Fratelli Musulmani, con cui il padre del moderno islam politico turco, Necmettin Erbakan (1926-2011), ha sempre tenuto contatti piuttosto stretti. Tuttavia, questo islam politico è comunque turco, non arabo, ed è nato con una caratteristica particolare, il collegamento con il mondo delle confraternite sufi, teoricamente sciolte da Atatürk nel 1925 ma sopravvissute a livello di cerchie familiari e di villaggio. Sia Erbakan sia Erdogan sono venuti alla politica dal mondo delle confraternite.
Nel 2001 - soprattutto dopo l’11 settembre, ma il processo era iniziato prima - l’islam politico turco si è scisso. Erdogan, popolare sindaco di Istanbul e leader della seconda generazione di questo movimento, ha rotto con il suo mentore politico Erbakan fondando un partito islamico meno ostile all’Occidente e che vorrebbe avere con l’islam il rapporto che le democrazie cristiane europee degli anni 1950 e 1960 - quelle successive sono considerate troppo "laiche" - avevano o dichiaravano di avere con il cristianesimo. Gli elettori hanno subito premiato Erdogan, che ha vinto le elezioni del 2002, mentre il partito di Erbakan si è fermato al due per cento.
Tra le novità della svolta di Erdogan, vi è stato anche il tentativo di recuperare in una sintesi nazionale elementi dell’eredità di Atatürk, distinguendo fra giacobinismo e secolarismo, tra "kemalismo" e "atatürkismo" che coesisterebbero nel pensiero del "padre dei turchi". Erdogan afferma che, se è accettabile il secolarismo come strumento di modernizzazione della Turchia, non si può invece accettare il giacobinismo, cioè il tentativo di eliminare la religione dalla vita pubblica. La proposta di riforma costituzionale di Erdogan vorrebbe liquidare il giacobinismo preservando alcuni elementi del secolarismo. Ci sono però alcuni temi - come il velo, vietato in alcuni spazi pubblici dai successori di Atatürk e che Erdogan vorrebbe permettere - su cui lo scontro resta durissimo.
Molti in Europa diffidano di qualunque espressione dell’islam politico, e dunque tifano apertamente per l’opposizione kemalista del CHP. Dimenticano, però, che il laicismo turco, la cui matrice massonica è evidente e spesso dichiarata, ha sì garantito l’alleanza con gli Stati Uniti e l’Occidente ma ha dato risultati molto discutibili in termini di violazioni dei diritti umani, corruzione, cattiva gestione dell’economia: tutti terreni su cui Erdogan non ha certamente risolto tutti i problemi, ma ha fatto meglio dei suoi predecessori, il che spiega perché molti elettori turchi che non sono certamente ultra-fondamentalisti islamici continuano a votarlo.
È anche vero che il partito di Erdogan, che ha raccolto nelle ultime elezioni politiche il voto di quasi metà dei turchi, è ormai un’enorme organizzazione - una "balena verde", se la DC italiana era la "balena bianca" - divisa in molteplici correnti. Tra queste ve ne sono sicuramente alcune che hanno simpatie per l’Iran e per Hamas, mentre altre guardano decisamente all’Europa. Vi è qui però un altro paradosso: più l’Europa moltiplica i segni d’insofferenza verso la Turchia - un’ostilità il cui simbolo per molti turchi è il presidente francese Sarkozy, mentre il politico più vicino alla Turchia è considerato Berlusconi, che Erdogan ha perfino voluto a suo tempo come testimone di nozze di suo figlio Bilal -, più all’interno dell’AKP si rafforza la componente anti-europea, che guarda a Oriente e che manifesta la sua insofferenza anche nell’ostilità alla minoranza cristiana, su cui purtroppo si scaricano regolarmente le tensioni politiche turche. Né l’amministrazione Obama è riuscita a mantenere con Erdogan quei rapporti privilegiati - pur se non privi di difficoltà - che avevano caratterizzato l’Amministrazione Bush.
Con chi stare, allora? Chi pensa che l’islam politico possa essere semplicemente spazzato via continua a tifare per il CHP e per la cultura laico-massonica, non solo anti-islamica ma antireligiosa, che ispira gli eredi più conseguenti del kemalismo. Se invece si ritiene che l’islam politico sia comunque destinato a rimanere una presenza molto significativa in Medio Oriente - tanto più dopo le recenti rivolte arabe, che stanno travolgendo molti regimi laico-nazionalisti -, allora la versione non priva di problemi ma dialogante di Erdogan rimane un interlocutore privilegiato per qualunque confronto. Se l’islam politico, ci piaccia o no, rimarrà una forza politica di grandi dimensioni, se non dominante, nel mondo musulmano, allora si potrà perfino ritenere che all’interno delle organizzazioni internazionali islamiche all’Occidente convenga una leadership turca rispetto a una, per esempio, di forze ispirate ai Fratelli Musulmani che potrebbero conseguire un successo nelle prossime elezioni in Egitto.
Dopo la sua prevedibile vittoria elettorale, con la Turchia di Erdogan continuerà un confronto delicato, che non dovrà fare sconti al governo turco sui diritti umani e sulla situazione delle minoranze cristiane. Ma il tifo da stadio di molti europei per l’opposizione e contro un governo che continua a godere della fiducia degli elettori turchi, e la nostalgia, nello stile un po’ massonico dell’“Economist”, dei tempi di Atatürk che comunque non torneranno più, rischiano solo di rafforzare le componenti più anti-occidentali del vincente islam politico turco.