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radici cristiane

Erdő racconta l'Ungheria di Santo Stefano

Nell'intervista ai media vaticani, incentrata sulla figura del santo re, il cardinale ungherese ripercorre la persecuzione comunista e ribadisce l'importanza di esprimere la fede nello spazio pubblico.

Borgo Pio 14_08_2024
IMAGOECONOMICA - DANIELE STEFANINI

Ruota attorno alla figura chiave di Santo Stefano, primo re d'Ungheria, fondatore ed evangelizzatore del Paese con cui tuttora gli ungheresi si identificano, l'ampia intervista concessa a Deborah Castellano Lubov per i media vaticani dal cardinale Peter Erdő, alla vigilia dell'Assunzione e della festa del santo re che «ha dedicato la sua corona e il suo Paese alla Madonna». L'arcivescovo di Estergom-Budapest e primate d'Ungheria spazia dalla storia alla testimonianza personale, incluso il tempo della persecuzione comunista, e ribadisce l'importanza di esprimere la fede nello spazio pubblico.

«Chi è Santo Stefano per gli ungheresi?» – «Per gli ungheresi in generale è il re», risponde il porporato. «Santo Stefano è stato il primo re cristiano del Paese. Durante il suo regno, 1000 anni fa, l'Ungheria è stata cristianizzata con metodi non duri, ma piuttosto di convinzione e di organizzazione. Santo Stefano significa anche l'unità dello Stato ungherese», per questo, «non soltanto i cattolici credenti, ma tutti rispettano la sua figura e anche questa festa che è celebrata a livello nazionale» (il 20 agosto per gli ungheresi, mentre nel calendario universale ricorre il 16). L'evangelizzazione è andata di pari passo con la fondazione del regno per il santo re che «ha fatto tutto per rinforzare la cultura e la visione cristiana del mondo. In Ungheria questo comportava anche uno sviluppo economico e un nuovo rapporto con i popoli intorno a noi. (...) Santo Stefano voleva che gli ungheresi entrassero nella grande famiglia dei popoli cristiani d'Europa».

Radici che altrove si vanno perdendo o eliminando dallo spazio pubblico, eppure nella storia della salvezza contano «anche i popoli, non soltanto le singole persone», e inoltre «pubblico e privato non sono separabili nella vita umana, nella vita delle società, perché le decisioni, anche private, possono avere una ripercussione alla società e viceversa». Lo dimostra – in senso contrario – il comunismo che ha eretto i suoi simboli per cui «lo spazio pubblico non rimane completamente vuoto. E i simboli cristiani? Le chiese, per esempio, indicano che lunghe generazioni hanno riconosciuto che la vita quotidiana non è l'orizzonte supremo, ma c'è un orizzonte più alto che dà senso e valore alle piccole cose della nostra vita».

Un orizzonte che nemmeno la persecuzione del regime è riuscita a sradicare. Erdő attinge anche ai ricordi personali: «abbiamo saputo che mio papà, essendo stato giurista, non poteva esercitare la propria professione perché era considerato troppo religioso. Mia mamma, insegnante, non poteva insegnare perché considerata troppo religiosa. E quindi abbiamo visto che cosa era più importante nella vita», cioè la fede, vissuta con naturalezza persino in quei frangenti, «nella naturalezza di credere che Dio è supremo. E che la religione è la cosa più importante nella nostra vita».