Erdő racconta l'Ungheria di Santo Stefano
Nell'intervista ai media vaticani, incentrata sulla figura del santo re, il cardinale ungherese ripercorre la persecuzione comunista e ribadisce l'importanza di esprimere la fede nello spazio pubblico.
Ruota attorno alla figura chiave di Santo Stefano, primo re d'Ungheria, fondatore ed evangelizzatore del Paese con cui tuttora gli ungheresi si identificano, l'ampia intervista concessa a Deborah Castellano Lubov per i media vaticani dal cardinale Peter Erdő, alla vigilia dell'Assunzione e della festa del santo re che «ha dedicato la sua corona e il suo Paese alla Madonna». L'arcivescovo di Estergom-Budapest e primate d'Ungheria spazia dalla storia alla testimonianza personale, incluso il tempo della persecuzione comunista, e ribadisce l'importanza di esprimere la fede nello spazio pubblico.
«Chi è Santo Stefano per gli ungheresi?» – «Per gli ungheresi in generale è il re», risponde il porporato. «Santo Stefano è stato il primo re cristiano del Paese. Durante il suo regno, 1000 anni fa, l'Ungheria è stata cristianizzata con metodi non duri, ma piuttosto di convinzione e di organizzazione. Santo Stefano significa anche l'unità dello Stato ungherese», per questo, «non soltanto i cattolici credenti, ma tutti rispettano la sua figura e anche questa festa che è celebrata a livello nazionale» (il 20 agosto per gli ungheresi, mentre nel calendario universale ricorre il 16). L'evangelizzazione è andata di pari passo con la fondazione del regno per il santo re che «ha fatto tutto per rinforzare la cultura e la visione cristiana del mondo. In Ungheria questo comportava anche uno sviluppo economico e un nuovo rapporto con i popoli intorno a noi. (...) Santo Stefano voleva che gli ungheresi entrassero nella grande famiglia dei popoli cristiani d'Europa».
Radici che altrove si vanno perdendo o eliminando dallo spazio pubblico, eppure nella storia della salvezza contano «anche i popoli, non soltanto le singole persone», e inoltre «pubblico e privato non sono separabili nella vita umana, nella vita delle società, perché le decisioni, anche private, possono avere una ripercussione alla società e viceversa». Lo dimostra – in senso contrario – il comunismo che ha eretto i suoi simboli per cui «lo spazio pubblico non rimane completamente vuoto. E i simboli cristiani? Le chiese, per esempio, indicano che lunghe generazioni hanno riconosciuto che la vita quotidiana non è l'orizzonte supremo, ma c'è un orizzonte più alto che dà senso e valore alle piccole cose della nostra vita».
Un orizzonte che nemmeno la persecuzione del regime è riuscita a sradicare. Erdő attinge anche ai ricordi personali: «abbiamo saputo che mio papà, essendo stato giurista, non poteva esercitare la propria professione perché era considerato troppo religioso. Mia mamma, insegnante, non poteva insegnare perché considerata troppo religiosa. E quindi abbiamo visto che cosa era più importante nella vita», cioè la fede, vissuta con naturalezza persino in quei frangenti, «nella naturalezza di credere che Dio è supremo. E che la religione è la cosa più importante nella nostra vita».