Eni: quel pregiudizio tutto italiano contro le lobby
L'inchiesta della magistratura sulla presunta maxi-tangente Eni in Nigeria, può provocare danni economici ingenti in un momento molto delicato. Prove di corruzione, finora, non ne sono state presentate. E le leggi italiane sul lavoro di lobbying delle aziende sono una giungla mai riformata.
La Procura di Milano sta indagando su una presunta corruzione internazionale che coinvolgerebbe Eni. Secondo i pm milanesi, sarebbe stata pagata una maxi-tangente sul miliardo e 92 milioni di dollari spesi da Eni per l'acquisto della concessione del giacimento petrolifero nigeriano Opl-245, che rappresenta uno dei maggiori potenziali minerari non sviluppati. Chi indaga ipotizza che ottocento milioni di dollari sarebbero stati ripartiti tra alcuni politici e intermediari africani, mentre circa 215 milioni sarebbero stati destinati a mediatori e manager italiani ed europei. I pm sarebbero riusciti a bloccare una parte della presunta tangente da 193 milioni di dollari, grazie al sequestro in Svizzera, mesi fa, di 110 milioni e grazie al blocco a Londra (su richiesta italiana) di 83 milioni riconducibili a un mediatore nigeriano.
Le riserve di petrolio scoperte in Nigeria sono ingenti, pari a 500 milioni di barili di petrolio equivalente (boe). Per l'ipotesi di corruzione internazionale, la Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati il nuovo amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, all'epoca dei fatti contestati (2011) responsabile della divisione Exploration & Production del "cane a sei zampe", l'ex ad Paolo Scaroni e il mediatore, Luigi Bisignani. L'Eni ha diffuso un comunicato stampa per sottolineare la sua assoluta estraneità ai fatti contestati e per ribadire la sua completa disponibilità a collaborare con la magistratura. Ha altresì precisato di aver stipulato accordi solo con il governo nigeriano e con la compagnia petrolifera Shell.
Dalla vicenda, ancora in corso e destinata a riservare ulteriori sorprese, originano alcune riflessioni. La prima riguarda l'azione della magistratura. I pm "azzoppano" la prima azienda italiana, proprio mentre gli investitori stranieri mettono l'occhio sulle eccellenze italiane e il governo Renzi sembra aprire alle privatizzazioni di quote di aziende italiane, al fine di attirare capitali da altri Stati. I nostri competitors stranieri esultano per quest'ennesima iniziativa giudiziaria destinata a lasciare campo libero ai voraci francesi (e non solo), pronti a fare incetta di milionari business energetici. L'Eni, peraltro, annaspa in Libia e Algeria, mentre la situazione internazionale dei rapporti tra gli Stati europei e la Russia è quella che è e gli affari dell'Eni nel regno di Putin sono anch'essi a rischio.
Il "cane a sei zampe" zoppica e questo rappresenta una fonte di preoccupazione non secondaria per Renzi, che forse aveva nominato Descalzi al posto di Scaroni proprio per garantire una continuità nella gestione di alcune "partite" decisive per l'economia del Paese. Significative in tal senso le dichiarazioni del Premier, che anche ieri ha difeso Descalzi, dichiarando che lo rinominerebbe ad di Eni. Il secondo elemento di riflessione è costituito dall'enfasi mediatica (forse eccessiva) riservata all'inchiesta Eni-Nigeria dal Corriere della Sera, il cui direttore (ormai in uscita) Ferruccio De Bortoli avrebbe un conto in sospeso con il mediatore Luigi Bisignani. Ancora una volta il diritto dei cittadini ad essere informati viene sacrificato sull'altare di vendette, regolamenti di conti e logiche estranee alla deontologia giornalistica.
Infine, la questione della trasparenza degli interessi. Un'azienda ha tutto il diritto di esercitare la propria influenza sulle autorità pubbliche di un altro Paese. Lo fanno tutte le aziende di Paesi concorrenti, ma i giornali italiani non lo scrivono. Nell'inchiesta in corso, non è ancora stato dimostrato nulla. Non ci sono le prove della corruzione, che si realizza solo quando si paga indebitamente un pubblico ufficiale. Se un'azienda si serve di un intermediario per rappresentare i suoi interessi e perseguirli, e questa prestazione viene fatturata e compresa nel costo dell'operazione, non commette alcun illecito. In Italia, a differenza che in molti altri Stati europei ed extraeuropei, la regolamentazione delle lobbies è ancora una chimera. E le norme vigenti in materia di corruzione vengono interpretate attraverso il filtro deviante di un pregiudizio tutto italiano, quello in base al quale ogni attività di intermediazione cela sempre e comunque una condotta illecita. La prima versione della legge Severino, per fortuna superata dalle variazioni successive, introduceva il reato di traffico di influenze illecite, che praticamente inibiva ogni attività di rappresentanza di interessi e allontanava ogni speranza di riconoscimento delle attività di lobbying. Sembrava quasi la minaccia di spedire in galera tutti i responsabili delle relazioni istituzionali delle grandi aziende per il solo fatto di intrattenere rapporti con i decisori istituzionali finalizzati a influenzarli in modo lecito sulla gestione di alcune operazioni.
È un pregiudizio tutto italiano quello sulle attività di intermediazione, considerate sempre e comunque condotte illecite e fonti di corruzione. Proprio per allontanare ombre e sospetti, che finiscono per appannare l'immagine delle grandi aziende e per danneggiare gli interessi nazionali, occorrerebbe maggiore trasparenza nelle attività di rappresentanza degli interessi. Una legge urge. Il governo Letta l'aveva promessa, ora Renzi potrebbe finalmente condurla in porto. Sarebbe la vera riforma da fare, perché, tra le altre cose, restituirebbe piena legittimità alla figura dei lobbisti, professionisti che negli Usa e in altri Stati godono di un'autorevolezza sociale e professionale assolutamente sconosciuta in Italia, dove vengono considerati a priori personaggi loschi e affaristi senza scrupoli.