Emilia e Ue, guerra all'agricoltura: «Ci pagano per non lavorare i campi»
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In nome di una lotta ideologica ai cambiamenti climatici e all'inquinamento, l'Ue dichiara guerra all'agricoltura. E l'Emilia-Romagna esegue: da questo mese gli agricoltori che cessano la produzione dei seminativi riceveranno dei soldi. Un reddito agricolo di cittadinanza che farà aumentare l'importazione di prodotti alimentari indispensabili e deprimerà il settore agricolo.
La protesta degli agricoltori contro le politiche Ue sta proseguendo da tre giorni. Nelle ultime ore molti presidi spontanei sono sorti a sostegno del C.R.A., il comitato di agricoltori che sta sfidando le istituzioni, e i sindacati, nel silenzio di gran parte della stampa.
Tra le motivazioni della protesta ci sono le politiche europee che stanno mettendo in ginocchio l’intero comparto del settore primario, stretto tra vincoli e leggi che il più delle volte costringono i coltivatori diretti e gli allevatori a dover fare delle scelte per tenere in piedi le loro aziende.
Uno dei motivi di protesta è da rintracciare nei regolamenti comunitari, recepiti dallo Stato e dalle regioni, per limitare la produzione di alcuni prodotti. In alcuni casi per eliminarla del tutto, come dimostra il programma di ritiro dei seminativi dalla produzione.
Si tratta di una misura inquietante, decisa dall’Ue e adottata da alcune regioni, come ad esempio l’Emilia-Romagna, che dal 1° gennaio 2024 ha offerto questa possibilità agli agricoltori della sua terra. Una possibilità, che in realtà cela un cappio al collo per gli agricoltori. Partendo dal presupposto – errato secondo chiunque studi la scienza della terra – che l’agricoltura sia fonte di inquinamento e causa del cambiamento climatico, la regione guidata da Bonaccini, recependo i regolamenti Ue, ha emesso un bando per convincere i contadini a smettere di produrre, lasciare il proprio terreno incolto e compensare la mancata rendita con un corrispettivo economico.
Avete capito bene. Si tratta di una sorta di reddito di cittadinanza agricolo. Il contadino non lavora la sua terra e percepisce dei soldi dalle istituzioni. Una droga di Stato creata appositamente su base ideologica perché parte dal presupposto che l’agricoltura, con i suoi trattamenti fitosanitari e zootecnici, debba essere bandita e rappresenti un male per il pianeta.
Si chiama Intervento Sra26 ed è stato adottato con una delibera della giunta regionale guidata da Bonaccini il 4 dicembre dello scorso anno. Trae le sue motivazioni dal Piano strategico della PAC (Politica Agricola Comune) 2023-2027 ai fini del sostegno dell’Unione, finanziato dal Fondo Europeo Agricolo di garanzia e per lo sviluppo rurale e prevede il ritiro dei seminativi dalla produzione.
Ma perché bisogna togliere una buona parte della produzione agricola?
I motivi, indicati dal piano europeo e recepiti dalla Regione sono principalmente tre:
- Contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici attraverso la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e il miglioramento del sequestro del carbonio, nonché promuovere l’energia sostenibile.
- Favorire lo sviluppo sostenibile e un’efficiente gestione delle risorse naturali come l’acqua, il suolo e l’aria anche attraverso la riduzione della dipendenza chimica.
- Contribuire ad arrestare e invertire la perdita di biodiversità, migliorare i servizi ecosistemici e preservare gli habitat e i paesaggi.
Tralasciando una confutazione puntuale di questi obiettivi, per la quale rimandiamo a successivi articoli di esperti del settore, salta subito all’occhio un fatto: quale che sia il numero degli agricoltori effettivi che aderiranno a questo “suicidio di Stato”, è evidente che il messaggio che si manda a chi lavora la terra è il seguente: il tuo lavoro fa male all’habitat, al paesaggio e all’ecosistema. Una deriva ideologica che parte dall’idea neomalthusiana che l’uomo sia il nemico del pianeta.
In cambio, la Regione pagherà gli agricoltori per tenere i trattori in capannone. «Gli interventi prevedono l’erogazione di un importo annuale al fine di compensare i costi aggiuntivi e il mancato guadagno dovuti all’applicazione degli impegni previsti».
Eh sì, perché l’agricoltore si deve impegnare a non rendere quel terreno una palude o un ricettacolo di animali e vegetazione infestante. E per farlo deve comunque lavorare. Solo che non può godere del frutto del suo lavoro. Il frutto è un compenso di sussistenza. I primi 844mila euro per il ritiro dei seminativi sono già stati erogati e i soldi che i contadini percepiranno, vanno dai 500 ai 1500 euro all’ettaro a seconda della tipologia di seminativo che verrà tolta dalla produzione per 20 anni.
In compenso l’agricoltore deve stipulare dei patti nei quali si impegna a mantenere quel terreno efficiente per prosciugare i prati umidi, gli stagni o i laghetti; ma anche eliminare le nutrie; e ancora non spandere liquami o concimi chimici, trinciare l’erba per mantenere un prato permanente, seminare per mantenere il cotico erboso, mantenere le arginature perimetrali e creare sponde digrandanti per lo scolo. Attività che comportano per il contadino un dispendio di energie e lavoro, ma che non è finalizzato alla raccolta di un prodotto. È solo finalizzato ad assecondare i diktat di un’Europa che evidentemente ha deciso di dichiarare guerra all’agricoltura.
C’è chi ha provato a fare due calcoli e ha scoperto che dal punto di vista economico potrebbe pure essere vantaggioso, ma diventerebbe un controsenso etico del proprio lavoro. La Bussola ha provato a sondare con qualche agricoltore emiliano e ha scoperto che la maggior parte dei coltivatori diretti è intenzionata dire no.
È il caso – ad esempio – di Fabio Muzzarini, agricoltore di Reggio Emilia che ci spiega quanto sia perverso questo sistema: «È persino peggio del reddito di cittadinanza – spiega – perché è persino controproducente. Ammettiamo che aderisca a questo programma di ritiro dei seminativi: potrei arrivare ad avere 5800 euro all’anno per vent’anni. Se invece lo dessi in affitto per coltivarlo avrei un incasso di 5000 euro con in più il guadagno dell’agricoltore per la vendita dei prodotti. Ci vivrebbero due famiglie, invece di una. È un controsenso».
Anche le motivazioni non convincono: «Contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici – prosegue - è un’utopia, perché i prodotti agricoli da qualche parte bisognerà pure comprarli, quindi non si capisce a che cosa possa servire questo piano se non a mettere in ginocchio l’agricoltura di casa nostra e importare da chissà dove gli stessi prodotti che noi scegliamo di non coltivare più. A questo poi si deve aggiungere che se smetti di seminare per l’Emilia, il prodotto lo devi importare dall’estero e per portarlo da noi devi farlo viaggiare; quindi, l’inquinamento che speri di ridurre da un lato, ce l’hai da un altro. Io dico no a questo falso sostegno e spero che siano in tanti ad opporsi. L'agricoltura invece andrebbe incentivata con il sostegno nell'utilizzo di prodotti sempre più sostenibili».