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L'EDITORIALE

Emergenza siccità in Somalia, non lasciamo l'appello a metà

Soccorrere i somali alla fame è un'urgenza e un dovere, come ha detto il Papa. Ma Benedetto XVI ha anche detto che nutrire gli affamati non basta: bisogna andare alle radici del conflitto, vera causa delle ricorrenti carestie.

Editoriali 03_08_2011
Il 27 luglio, con un giorno di ritardo, dovuto – e ha dell’incredibile! – all’insorgere di “problemi doganali”, è iniziato il ponte aereo da Nairobi, Kenya, a Mogadiscio, Somalia, deciso con urgenza dalla comunità internazionale per assistere le popolazioni colpite dalla carestia che da mesi interessa tutto il Corno d’Africa a causa di una protratta siccità.

Un terzo degli abitanti della Somalia ha bisogno di aiuti alimentari costanti e si stima che nell’intera regione sia in pericolo la sopravvivenza di 12 milioni di africani. Ma il numero delle persone in difficoltà è destinato a crescere nelle prossime settimane e inoltre l’emergenza, nella migliore delle ipotesi, non si risolverà prima di sei mesi, vale a dire fino al prossimo raccolto e soltanto se, come si spera, le piccole piogge di novembre cadranno regolari a beneficio di campi, orti e pascoli. Se invece le piogge non arriveranno oppure, come spesso succede dopo un lungo periodo di siccità, saranno torrenziali e prolungate, sarà carestia per un’altra stagione ancora.

Già nel fine settimana
su Mogadiscio è caduta una pioggia battente che ha creato gravi disagi dal momento che la città è diventata una sorta di enorme campo profughi fatto di ripari di cartone, stracci, legno e lamiere da quando decine di migliaia di persone hanno incominciato ad affluirvi spinte dalla fame dopo che, per vent’anni, chi ha potuto se n’è andato – spingendosi a sud e se possibile lasciando il paese – per sfuggire agli incessanti combattimenti tra esercito e milizie antigovernative che quasi ogni giorno provocano vittime tra i civili. Altre decine di migliaia sono i profughi della fame che hanno varcato nei mesi scorsi le frontiere per raggiungere il campo di Dollo Ado, in Etiopia, e soprattutto quello di Dadaab, in Kenya, dove si registra una media di mille nuovi arrivi al giorno. Nato anni or sono per soccorrere i somali in fuga dalla guerra civile e previsto per ospitare 90.000 persone, questo campo oggi ne conta quasi 400.000.

Le Nazioni Unite stimano che per far fronte a questa ennesima crisi umanitaria africana occorra più di un miliardo di euro. La Banca Mondiale, l’Unione Europea e alcuni altri stati occidentali e del Golfo Persico hanno stanziato i primi fondi. Inoltre centinaia di migliaia di privati cittadini stanno rispondendo generosamente ai numerosi appelli lanciati in questi giorni, primo fra tutti quello del Pontefice che per la seconda volta, durante la preghiera mariana domenicale, ha esortato i fedeli alla compassione e alla condivisione fraterna: “Gesù ci ricorda che è vietato essere indifferenti davanti alla tragedia degli affamati e degli assetati – ha spiegato Benedetto XVI commentando il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci – seguendo Cristo dobbiamo essere sensibili alla povertà dei popoli”. Ma il dovere cristiano di assistere il prossimo si deve accompagnare a una chiara e lucida visione dei fatti. Per questo il Papa ha tenuto a sottolineare che nel Corno d’Africa gli effetti della siccità sono aggravati “dalla guerra e dalla mancanza di solide istituzioni”.

In Somalia è in corso una guerra civile dal 1991, anno della caduta del dittatore Siad Barre. Irresponsabilmente i capi clan del paese da allora si contendono il potere, alcuni a capo movimenti armati antigovernativi, altri con continue prove di forza all’interno delle istituzioni politiche. Mentre la carestia minaccia milioni di connazionali, il presidente del parlamento e il capo dello stato non hanno esitato a provocare una nuova crisi politica, risoltasi da pochi giorni con le dimissioni forzate del premier. D’altra parte il governo somalo in realtà controlla a mala pena alcuni quartieri della capitale, grazie alla presenza di una missione militare dell’Unione Africana, mentre il resto della città, gran parte delle regioni centrali e meridionali e le maggiori città sono in mano agli Shabab, il più importante movimento antigovernativo. Ed è qui che l’emergenza diventa tragedia.

All’inizio di luglio gli Shabab, che dal 2009 hanno espulso le agenzie ONU e le organizzazioni non governative dai loro territori, avevano dichiarato di essere disposti ad aprire corridoi umanitari per consentire agli aiuti internazionali di raggiungere le comunità in pericolo. Ma poi hanno revocato ogni autorizzazione e anzi hanno affermato che l’emergenza umanitaria lanciata dalle Nazioni Unite non è altro che una mossa politica contro di loro. Al Pontefice si deve infine l’avvertimento a non pensare che nutrire gli affamati serva a sconfiggere povertà e fame. Con la moltiplicazione dei pani – ha ammonito – Gesù “non ci dà per questo una ricetta utile a sfamare i popoli del mondo né a risolvere il dramma della fame”.

Indispensabile e doverosa per salvare vite umane, la mobilitazione internazionale non rimedia che temporaneamente alle mancanze dei governi incuranti del bene collettivo e neanche alla strutturale fragilità delle economie di sussistenza. Tanto meno può risolvere i problemi di un paese come la Somalia in guerra da 20 anni.

La Somalia, e non solo la Somalia, ha innanzitutto bisogno di ritrovare la pace e una stabilità politica, premessa indispensabile per qualsiasi politica di sviluppo. Come ha rilevato anche Nur Hassan Hussein, ex primo ministro somalo: “Finché la Somalia non troverà pace non si potrà dire al sicuro da altre crisi e non potrà creare condizioni per lo sviluppo”.

Dello stesso parere
è anche il deputato somalo Sharif Mohammed, intervistato dall’agenzia di stampa MISNA: “la fame di cui stanno morendo i somali necessita di soluzioni politiche, quelle umanitarie risolveranno solo l’emergenza momentanea”, ma, “se non si agisce sulle cause del conflitto”, non si impedirà alla carestia “di tornare a minacciare la Somalia e l’intero Corno d’Africa”.