DIRITTO ALLA VITA
Eluana, eutanasia dell'Italia
- In memoria di Eluana, di Luigi Negri
- Eurispes, confusione, di T. Scandroglio
- L'alternativa? Le cure palliative,
di Raffaella Frullone
di Raffaella Frullone
Attualità
09_02_2012
Che cosa resta del “caso Englaro”, a tre anni dalla morte di Eluana?
E’ innegabile che quella dolorosa vicenda è uscita dalla cronaca per entrare nella storia del nostro Paese: un caso umano e giudiziario che resterà nei manuali come segnavia del dibattito etico e giuridico intorno all’eutanasia.
Eluana è stata trasformata, lei non potendoci dire in alcun modo se ciò le fosse gradito o meno, in un simbolo: il simbolo vivente (perché era, appunto, viva) della rivendicazione di una morte che non sia più l’esito ineluttabile del limite umano, ma la scelta deliberata di familiari, giudici, tutori, medici che compiono gli atti necessari per far morire. Nel caso specifico, interrompendo alimentazione e idratazione a una paziente che prometteva – o minacciava: a seconda dei punti di vista – di continuare a vivere per mesi e forse per anni.
Dal punto di vista dei fautori della dolce morte, il caso Englaro è stato un successo almeno sotto quattro profili: mediatico, culturale, medico e politico.
Innanzitutto sul piano dei grandi mezzi di comunicazione, dove la vicenda è stata cavalcata in maniera perfetta e ha rappresentato un vero e proprio caso di scuola di come si possa usare una storia personale e individuale per sostenere una tesi valida invece per tutti; e cioè che è meglio morire piuttosto che vivere in certe condizioni, se il paziente così vuole, o se si presume che così egli voglia.
Un successo sul piano culturale, perché ha contribuito a sdoganare fra la gente comune l’idea che uno possa ottenere di morire, quando lo chiede; convincendo l’opinione pubblica che il passo tra la richiesta e la pretesa sia così breve da risultare invisibile.
Sul piano medico, questa storia ha polarizzato l’attenzione di tutti su alimentazione e idratazione, facendo dimenticare che si può praticare l’eutanasia anche interrompendo deliberatamente altre forme di sostentamento più complesse, e quindi allentando la resistenza morale su questo fronte; tanto è vero che dopo la vicenda di Eluana - per la legge del piano inclinato – anche in casa cattolica molti si affrettarono a “sdoganare” il caso Welby, considerandolo come non-eutanasico, e cancellando così le resistenze pubbliche che invece all’epoca si erano manifestate, culminanti nella coraggiosa decisione del cardinal Camillo Ruini di rifiutare le esequie religiose.
Sul piano politico va registrato infine il successo più eclatante, perché il caso Englaro è servito a mettere in moto il meccanismo della ormai famosa legge sul testamento biologico. Legge promossa e sposata non – come sarebbe accaduto prima della morte di Eluana - dal fronte dei fautori della “dolce morte”, gli stessi che promossero e ottennero divorzio legale e aborto legale – ma promossa e sposata da coloro che, nell’agone politico, si qualificano come “difensori della vita”. Un testacoda concettuale davvero stupefacente, che non ha prodotto tutti i suoi risultati politici soltanto per l’indebolimento prima e la caduta poi del Governo Berlusconi. Ma che comunque ha “sdoganato” culturalmente e moralmente il testamento biologico, che ora viene impugnato come un “Moloc”, buono e docile, da grandi fette del mondo cattolico e da alcuni autorevoli ambienti pro life.
Il caso Englaro è però stato, accanto a questi “successi”, anche un fallimento obiettivo per la cultura della morte. E il fallimento consiste in un fatto: e cioè che da allora, nonostante l’enorme impatto mediatico ed emotivo, nonostante l’impressionante allineamento degli opinionisti; nonostante tutto e tutti, da allora non si sono verificati in Italia casi giudiziari analoghi a questo. I pazienti in stato vegetativo sono numerosi, i malati che presentano altre condizioni croniche penose e difficili sono ancor più diffusi, il campionario del dolore e talvolta, purtroppo, della disperazione è lungo e ben fornito. Ma nonostante questo, e nonostante lo Stato non abbia modificato le leggi in materia come volevano i fautori delle DAT (dichiarazioni anticipate di trattamento), in tre anni i casi giudiziari analoghi quanti sono stati? Zero.
La ragione è semplice ed è stata già più volte evidenziata da una “minoranza silenziata” in casa cattolica: e cioè che il caso Englaro dimostrava la possibilità di ripercorrere da parte di altri la lunga, incerta e non facile strada giudiziaria intrapresa da quella famiglia; ma che a nessuno sarebbe stato preventivamente garantito un esito analogo, né un analogo atteggiamento “comprensivo” da parte degli organismi giurisdizionali.
Soprattutto, è chiaro che – come si insegna al primo anno di Giurisprudenza anche nelle peggiori università – una sentenza, o anche una catena di sentenze, in un sistema di civil law non è in grado di sovvertire norme cogenti dell’ordinamento giuridico, soprattutto se norme di diritto penale.
Questa è la lucida, e se si vuole anche un po’ cruda diagnosi di quella tristissima storia, tre anni dopo. Peccato che la politica, soprattutto la parte impegnata nella difesa dei “valori”, non l’abbia capito. E continui a non capirlo.