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AFRICA

Elezioni in Senegal, tutti contro Wade

Il presidente uscente cerca la terza rielezione, opposizione divisa ma monta la protesta. La Chiesa ha poroclamato una Giornata di preghiera

Attualità 27_02_2012
Voto in Senegal

«Le chiese cattoliche questa domenica sono vuote in tutta la diocesi. È un buon segno, ed è quello che si augurava il vescovo». La persona che mi propone questo commento a prima vista sorprendente è un diretto collaboratore – di nomi in questo articolo ne farò pochi – del vescovo di Kaolack, nel Sud del Senegal, dove mi trovo per uno studio del processo elettorale. Domenica 26 febbraio è il giorno delle elezioni presidenziali in Senegal, e la Chiesa è contenta se – tranne le suore e i bambini – i fedeli, più che a Messa, sono nei seggi: in fila al sole, con pazienza, nelle lunghe code per votare o dentro le sedi elettorali come rappresentanti di lista, presidenti, scrutatori. Chi è in chiesa prega. Ce n’è bisogno: lunedì o martedì per le strade potrebbe scatenarsi una rivoluzione, con ripercussioni imprevedibili in tutta l’Africa subsahariana e anche in quei Paesi, come l’Italia, che ospitano numerosi senegalesi immigrati.


Il Senegal non ha mai avuto rivoluzioni, violenze politiche o colpi di Stato militari. Per anni è stato indicato come il modello stesso di una democrazia africana che funziona. Anche se non tutto quello che luccicava era oro: la fama come poeta e intellettuale del primo presidente del Senegal indipendente, Léopold Sédar Senghor (1906-2001), non deve far dimenticare il lungo periodo in cui è stato impedito di fare politica a tutti i partiti tranne il suo, il Partito Socialista, e i suoi vent’anni (1960-1980) di presidenza sostanzialmente bloccata e senza alternative, seguiti da un altro ventennio in cui il Senegal è stato governato, come secondo presidente, dal suo delfino e successore Abdou Diouf. Né il «socialismo africano» di Senghor e Diouf è riuscito a sfuggire alla crisi degli altri socialismi: alla fine, si è rivelato la consueta ricetta per socializzare la miseria.


Questo spiega l’entusiasmo con cui, nel 2000, i senegalesi hanno sostenuto – in una campagna elettorale sostanzialmente libera e corretta – il capo storico dell’opposizione liberale, l’avvocato Abdoulaye Wade, che dopo vent’anni difficili di resistenza ai socialisti è diventato il terzo presidente del Senegal. Nei primi anni di governo, il consenso popolare ha continuato a sostenere Wade, che sembrava capace di coniugare la politica di prestigio culturale di Senghor, che aveva fatto del Senegal uno dei Paesi leader dell’Africa subsahariana, con un liberismo economico capace di migliorare i conti. Ma negli ultimi anni le cose hanno cominciato a guastarsi. Oppositori di Wade mi mostrano grafici sul prezzo della benzina o del riso: in ascesa costante, divenuta vertiginosa negli ultimi mesi, com’è capitato in Tunisia e in Egitto, e sappiamo com’è andata a finire. Soprattutto, l’ultimo Wade sembra avere perso il contatto con la realtà. La politica di egemonia culturale regionale è diventata megalomania, come mostra il gigantesco Monumento della Rinascita Africana, costato una fortuna e inaugurato nel 2010, che ho visitato al mio arrivo a Dakar. L’inquietante opera sembra un monumento nordcoreano, e in effetti lo è: la realizzazione è stata affidata alla Corea del Nord, che si è portata anche gli operai da casa, così che la discussa costruzione non è nemmeno servita a dare lavoro a un po’ di senegalesi disoccupati.


Quanto all’annunciato liberismo, una politica che ha insistito sulle grandi opere pubbliche costruite in collaborazione con le multinazionali ha certo migliorato qualche infrastruttura, ma in un periodo di crisi internazionale ha nuociuto ai conti del Senegal. Soprattutto, Wade ha progressivamente emarginato tutta la classe dirigente del suo partito, il Partito Democratico Senegalese (PDS), a favore del figlio Karim, che ha accumulato i ministeri e che il presidente presenta volentieri come il suo futuro successore, ma sul cui conto molti mi riferiscono storie fantastiche di corruzione di cui è difficile verificare l’autenticità. I più diretti collaboratori di Wade – che aspiravano alla sua successione –, temendo di essere scavalcati da Karim, lo hanno abbandonato e hanno fondato partiti rivali: prima Idrissa Seck, il «duro» del regime liberale, già primo ministro, poi Macki Sall, un altro ex primo ministro popolare tra i giovani e gli intellettuali.


La crisi è scoppiata in preparazione alle elezioni del 26 febbraio. La Costituzione voluta dallo stesso Wade limita i mandati presidenziali a due – Senghor ne aveva avuti cinque – ma il presidente la interpreta nel senso che il suo primo mandato, iniziato prima dell’approvazione della nuova Costituzione, non conta, così che il suo termine che inizia nel 2012 sarebbe il secondo e non il terzo, e Wade può nuovamente presentarsi alle elezioni. I suoi avversari hanno fatto ricorso al Consiglio Costituzionale sia su questo punto, sia contro una riforma della legge elettorale che avrebbe permesso ai presidenti uscenti di essere confermati al primo turno purché avessero battuto gli altri candidati e ottenuto almeno il 25% dei voti. Il Consiglio Costituzionale – che è di nomina politica – ha dato ragione a Wade sulla sua eleggibilità, mentre sulla riforma del 25% il presidente ha dovuto cedere a violente manifestazioni di piazza e ritirarla il 23 giugno 2011, così che i suoi avversari si sono riuniti in un cartello denominato Movimento del 23 giugno (M-23). Nel frattempo, la crisi economica aveva rilanciato il Partito Socialista, che nelle elezioni amministrative del 2009 – giudicate sostanzialmente corrette dalla comunità internazionale – aveva conquistato la maggioranza delle municipalità nella regione di Dakar. Successivamente, però, i socialisti si sono spaccati in due: quando il partito ha scelto come suo candidato alla presidenza Moustapha Niasse il leader storico del socialismo senegalese, Ousmane Tanor Dieng, non ha accettato la scelta e ha deciso di presentarsi con una sua lista autonoma.


Ci sono diversi altri candidati – in totale gli oppositori di Wade sono tredici – ma tutte le persone che ho intervistato puntano su Macky Sall o Idrissa Seck, anche se nella città dove mi trovo, Kaolack, i socialisti hanno un bastione storico. Gli oppositori di Wade hanno dato spesso l’impressione in campagna elettorale di restare indecisi fino all’ultimo tra le scelte di boicottare le elezioni, considerate irregolari a causa di quella che considerano la terza candidatura del presidente uscente, come tale incostituzionale, e cercare di vincerle. Le manifestazioni di piazza hanno fatto una dozzina di morti – circostanza allarmante, perché nuova in Senegal – ma non hanno radunato le masse viste in Egitto o in Tunisia.

L’ala dura e pura, talora violenta, è rappresentata da giovani arrabbiati che si esprimono su Facebook e Twitter a ritmo di musica rap, riuniti nel movimento Y-en-a-marre (Non ne posso più). Il loro candidato, il rapper residente in Francia Youssou N’Dour, intendeva presentarsi alle elezioni ma è stato escluso fra le polemiche, accusato di non avere raccolto le firme necessarie. Si trova però in Senegal, dov’è stato ferito due volte nelle manifestazioni di piazza contro Wade.


Kaolack è un bastione della protesta anti-Wade – tanto che la sua polizia è stata rafforzata in previsione dell’annuncio degli esiti elettorali importando truppe persino dalla pure agitata Dakar – e un buon punto di osservazione degli umori del Paese. Città un tempo gloriosa e turistica – contava il secondo mercato dell’Africa, dopo Marrakesh in Marocco, ma una parte delle strutture e delle botteghe è andata a fuoco un mese fa – patisce da anni problemi di raccolta dei rifiuti che fanno sembrare lievi quelli di Napoli e che hanno indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a inserirla nella lista delle città più sporche del mondo. Eppure, questa città di oltre duecentomila abitanti ha una sua bellezza, ed è anche uno dei centri religiosi più importanti del Paese.


Della religione si deve infatti sempre tenere conto quando si parla di politica in Senegal. Il voto, a differenza di altri Paesi africani, non ha una forte componente tribale: i socialisti e i liberali hanno davvero visioni economiche diverse, e si dividono fra loro su questioni di leadership. Ma ha una forte componente religiosa. Quando si parla di misticismo islamico e confraternite sufi qualcuno in Europa può pensare a movimenti minoritari, per quanto numerosi. In Senegal, come in altri Paesi islamici, non è così. La maggioranza dei senegalesi – e degli immigrati senegalesi, anche in Italia – fa parte di una confraternita. La più numerosa è quella dei Tijani, divisa in varie branche una delle quali ha la sua città santa a Medina Baye, a Kaolack, una città nella città con tanto di seggio elettorale (vedi fotografia che ho scattato documentando le code al voto). Qui intervisto un giovane marabutto – il termine è peraltro ambiguo perché identifica sia i dirigenti delle confraternite, sia chi propone miracoli e guarigioni a pagamento – il quale mi fa capire che i tijani, ufficialmente neutrali, sono in realtà schieratissimi contro Wade. Quest’ultimo infatti si è sempre dichiarato – anche se sulla validità della sua iniziazione ci sono dubbi – un membro della confraternita rivale, i Muridi, seconda per numero di membri ma prima per la solidità finanziaria e l’influenza nella vita economica. Anche a Kaolack, uno dei grandi centri dei Tijani, non si contano le imprese economiche che hanno nel nome un riferimento a Touba, la città santa dei Muridi, o che espongono il ritratto del loro leader, lo sceicco Mati Lèye Mbacké.


Non solo Wade ha sistematicamente favorito i Muridi rispetto ai Tijani, ma per disgrazia durante gli scontri di piazza pre-elettorali a Dakar una bomba è caduta sul sagrato della moschea El-Hadji Malick Sy, il centro dei Tijani nella capitale. Si è trattato di un semplice incidente ma il Ministro dell’Interno, andato a presentare le sue scuse ai Tijani, è stato fisicamente sequestrato per diverse ore e per liberarlo ci sono volute le forze speciali. Quanto alla terza confraternita del Paese, quella dei Layennes, ce l’ha da anni con Wade perché le nuove fognature di Dakar, orgoglio del presidente, finiscono per scaricare i rifiuti sulla spiaggia della loro vicina città santa.

E tuttavia gli stessi Muridi sembrano avere preso le distanze. A differenza che in altre occasioni, il loro sceicco non ha dato indicazioni ufficiali di voto, anche se alcuni suoi sottoposti sono apertamente schierati con Wade. Quanto alla Chiesa Cattolica – un solido dieci per cento della popolazione -, alcune dichiarazioni di Wade sulla supremazia dell’islam non sono piaciute, ma c’è timore anche per manifestazioni di piazza contro il presidente dove per la prima volta in Senegal sono risuonate le parole d’ordine dell’islam politico.


La Chiesa il 26 febbraio ha proclamato una giornata nazionale di preghiera per la riconciliazione e la pace. Ce n’è molto bisogno. Nel momento in cui scrivo lo scrutinio è in corso, ma gli scenari possibili sono due. Il primo: il governo dichiara che Wade ha vinto al primo turno. Anche se le operazioni di scrutinio saranno oneste – e si tratta di elezioni fra le più sorvegliate del mondo, con oltre tremila osservatori internazionali – molti senegalesi non ci crederanno. E diranno che i brogli sono iniziati prima, nella distribuzione dei certificati elettorali. Io stesso ho parlato con persone – più di una – che mi hanno descritto un mercato dove un certificato elettorale si vende per circa quindici euro e può essere poi usato da persone venute da altre città e perfino da altri Paesi che votano con documenti falsi. Con tre milioni di euro – cifra fantastica per un senegalese, ma alla portata dei principali candidati – si possono comprare 300.000 certificati elettorali, e probabilmente fare la differenza. Così, l’annuncio della vittoria di Wade scatenerà la piazza, mentre già ora Macky Sall annuncia che costituirà un governo parallelo e chiederà alla Francia - dove ha molti amici –di riconoscerlo. Uno scenario già visto in Costa d’Avorio, che ha portato diritto alla guerra civile. Le autorità religiose che ho intervistato insistono sulla tradizione pacifica dei senegalesi, che raramente ricorrono alle armi. Altri temono che un annuncio di vittoria di Wade trasformi il Senegal in un inferno.


Il secondo scenario è quello di elezioni che vanno al secondo turno. In questo caso il 18 marzo si contenderanno la presidenza Wade e un avversario che potrebbe essere Macki Sall, ma i sondaggi sono vietati e l’incertezza regna. A meno di truccare il secondo turno – cosa più difficile che truccare il primo, perché ormai i certificati sono distribuiti – Wade potrebbe perdere contro un avversario comunque sostenuto da forze disparate disposte a votare chiunque pur di liberarsi dell’ottantacinquenne presidente. Secondo il collaboratore del vescovo di Kaolack che ho intervistato, potrebbe anche fare il bel gesto di ritirarsi fra il primo e il secondo turno, in cambio di garanzie sul futuro personale suo e della famiglia, che escludano per esempio inchieste giudiziarie sulle malversazioni del figlio Karim.


Tra poche ore, si saprà come va a finire. Nei suoi viaggi in Africa, Benedetto XVI ha opposto due grandi categorie, la corruzione – che non è solo economica e politica e che è il grande male che insidia il continente – e la riconciliazione, certo fra tribù, etnie e religioni che da secoli si combattono ma anche delle menti e dei cuori, tornando ai valori della tradizione africana – il senso della famiglia, della solidarietà, della spiritualità – che il Papa cita continuamente quando parla di cose africane come grande risorsa e segno di speranza. Il giorno delle elezioni, un contatto di Kaolack ha insistito per portarmi nella vicina Kahone a Ngouye Douly, la radura dei baobab sacri dove per secoli sono stati iniziati i futuri re senegalesi del regno di Saloum. Anche questo sito, patrimonio dell’umanità e di solito visitato, è deserto nella giornata elettorale. Vi regna una curiosa pace, se si pensa che accanto a valori tradizionali e nobili il passato remoto del Senegal conta anche orrori e battaglie sanguinose. Corruzione o riconciliazione? Le prossime ore saranno decisive per vedere quale prevarrà fra le alternative drammaticamente indicate dal Papa all’Africa.