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MEDIO ORIENTE

Elezioni in Israele, la grande sfida per la stabilità

Domani si terranno le elezioni parlamentari in Israele, le quarte in appena due anni. Competono 39 liste. Finora Netanyahu è un protagonista indiscusso ed è riuscito sempre a galleggiare. Ma quel che va osservato, soprattutto, è il cambiamento dell'elettorato arabo e dei partiti che esprime, molto più integrati con il sistema Israele. 

Esteri 22_03_2021 Español
Preparativi nei seggi israeliani

I sondaggi lo indicano ancora una volta vincitore. Primo ministro di Israele ininterrottamente da quasi 12 anni, Benjamin Netanyahu leader e capolista del partito di centro-destra Likud verrebbe rieletto, primo di 28-30 deputati, nella consultazione di martedì 23 marzo. Che è la quarta in poco meno di due anni. E’ successo, come è noto, che in tutto questo tempo le tre legislature espresse da altrettante elezioni non sono mai state in grado di assicurare una maggioranza stabile ai vari governi (presieduti tutti da Netanyahu). E stavolta?

L’interrogativo è d’obbligo, vigendo un sistema elettorale rigorosamente proporzionale, espressione di una democrazia parcellizzata in tantissimi partiti e movimenti, sempre con liste in aperta competizione fra di loro (stavolta al nastro di partenza sono 39!). La governabilità certo è difficile, ma viene assicurata da coalizioni costituite e presiedute – in aree del centro destra o del centro sinistra -  da una personalità designata dal presidente dello Stato. Di solito è il capo della lista che ha riscosso il maggior numero di consensi. Naturalmente vi sono delle regole e procedure da rispettare, a cominciare da quella che fissa al 3,25% dei suffragi lo sbarramento per l’accesso al parlamento del candidato più votato di una lista.     

L’ultima elezione, del 2 marzo 2020, aveva portato ad un governo di coalizione del centro-destra e dei partiti religiosi e prevedeva l’alternanza alla sua guida di Netanyahu e del generale Benny Gantz, leader del partito Kahol Lavan (Blu e bianco); ma poi l’intesa non ha retto per pochi deputati dei due partiti al momento in cui si doveva votare il bilancio dello Stato. In effetti v’erano figure desiderose di emergere, di esprimere un rinnovamento soprattutto alla guida della nazione. Quelle che ora sperano, e si sono impegnati al massimo, di riuscirvi. 

Sembra scontato un ridimensionamento di questi due partiti: i sondaggi danno al Likud una trentina di  seggi, invece degli utlimi 36, a motivo della discesa in campo dell’avvocato Gideon Saar che a capo del nuovo partito di destra Tivka Hadasha (Speranza nuova) potrebbe conquistarne 9-10. Ne conquisterebbe di più, 18-20, la lista Yesh Atid (C’è un futuro) di Yair Lapid, che ha abbandonato Benny Gantz. Questi, alla guida di Kahol Lavan potrebbe salvarne appena quattro, stando alle impietose previsioni  (e pensando ai 12 deputati di prima!)

Previsti invece 7-8 deputati del partito di destra Yamina di Naftali Bennet, per i voti che pensa di raccogliere nel mondo religioso; e più o meno altrettanti del partito dei russofoni Yisrael Beitenu il cui leader Avigdor Lieberman per molti anni ha garantito il sostegno ai governi presieduti da Netanyahu nei quali era ministro della Difesa. Ma la loro adesione ad una coalizione di centro-destra non è certa. Yamina, dall’ambigua identità politica e dalle reticenti prese di posizione su questioni importanti (diritti civili, minoranza araba, strategie di sicurezza) potrebbe partecipare ad una coalizione di centro-sinistra. Mentre Lieberman si è così esposto in una campagna per la laicizzazione dello Stato da non poter entrare in una coalizione che comprenderebbe i religiosi ortodossi.

I partiti confessionali, tradizionali componenti dei governi di centro-destra, quindi alleati privilegiati di Netanyahu, manterrebbero le loro posizioni: ovvero 8 deputati il sefardita Shas e 7 l’ashkenazita Ebraismo Unito della Torah. All’estrema destra ha trovato spazio il piccolo partito nazionalista e religioso diretto da Bezael Smotrich che conquisterebbe da 2 a 4 seggi. Comunque questa parte di elettorato, importante per consistenza e per incidenza nella vita della nazione, non presenta variazioni di sorta rispetto al passato. Di recente ha misconosciuto una sentenza dell’Alta Corte sulle conversioni all’ebraismo validate da rabbini riformisti.

L’opposizione laica sembra confidare nel successo della lista Yesh Atid di Yair Lapid, fino a ieri componente forte del partito di Benny Gantz. Suoi alleati preferiti in una coalizione di sinistra sono i laburisti di Avodà, eredi della grande tradizione dei kibbutz e di personalità storiche come Yitzhak Rabin e Shimon Peres; la leadership oggi è espressa dalla femminista Merav Michaeli, a capo di una lista che potrebbe esprimere 6 deputati. Ed anche i socialisti di Meretz, partito pur esso presente da molti anni nella vita politica e parlamentare, oggi animato da intellettuali del ceto medio e da parecchi giovani. Alla sua lista sono pronosticati da 4 a 5  deputati.

Se Lapid dovesse riuscire a formare una coalizione parlamentare attraendo anche i deputati centristi di Benny Gantz, quelli ondivaganti di Naftali Bennet e quelli anticlericali di Avigdor Lieberman, potrebbe delineare un diverso “futuro”  politico, come dal nome del suo partito. Sarebbe la svolta anti-Netanyahu, inseguita, invano, nelle tre elezioni ravvicinate di questi ultimi anni. Anche se non sarà facile oscurare la faccia del “sempiterno” premier. Che in queste consultazioni ha giocato, e sembra bene, la carta delicata, e finora trascurata, dell’elettorato arabo.

E’ accaduto che le ultime generazioni di questa minoranza (costituisce il 21% della popolazione) hanno realisticamente colto le opportunità loro offerte da un sistema democratico, quale è quello israeliano, a cominciare dall’istruzione, impegnandosi in quella superiore e universitaria; e poi nel mondo del lavoro, giungendo ad assumere incarichi di responsabilità negli impieghi privati e statali, e dell’ imprenditoria; e accogliendo il promettente futuro dischiuso dalle relazioni di pace stabilite da Israele con le nazioni arabe del Golfo. Una minoranza che nell’emergenza Covid ha superato molti pregiudizi e scoperto l’efficacia della cooperazione locale con le strutture sanitarie nazionali.

A tal punto – emerso da un recente sondaggio di opinione – che il 46% degli arabo-israeliani si son detti pronti ad entrare in una qualsiasi coalizione di governo. Da richiedere in Galilea l’intervento della polizia (finora osteggiata e perfino cacciata) per combattere la crescente violenza giovanile (112 vittime nel solo 2020). Da sfaldare in queste elezioni la Lista Araba Unita, che composta da quattro partiti, aveva espresso nelle ultime elezioni 15 deputati. Ora è formata da tre partiti, uno dei quali il Ma’an di Muhammad Darawshe, noto come attivista della cooperazione arabo-israeliana, ha lasciato ad altri la tradizionale esaltazione del voto etnico per concentrarsi su problemi pratici, quali la risposta alla violenza, il lavoro giovanile, i piani urbanistici.

Ed è nato un nuovo partito, il Ra’am di Mansour Abbas, che ha addirittura guardato con simpatia a Netanyahu. Il quale non ha esitato a svolgere la sua campagna elettorale in parecchie località della Galilea, Nazareth compresa. Qui, introdotto in un comizio dal sindaco Alì Salam, ha auspicato “l’inizio di una nuova era di fratellanza, prosperità e sicurezza”, che già, ha affermato con gioia, è una realtà ad Abu Dhabi. Sono tutti segni del conflitto tra modernità e tradizione, di un nuovo trend nella realtà sociale araba, e quindi di contestazione della struttura tribale che tuttavia resiste insieme con numerose altre norme della sharia islamica. Non bisogna infine dimenticare che da sempre i partiti della sinistra israeliana hanno candidato nella loro liste candidati della minoranza araba, sia musulmani sia cristiani.

Staremo a vedere cosa esprimeranno queste elezioni e soprattutto quel che i partiti riusciranno a realizzare per una coalizione che assicuri quella stabilità di governo necessaria, anzi essenziale, in un momento di inquietudine per gli scenari di politica estera in Medio Oriente  – di per sé conflittuali per la presenza militare di potenze estranee – che sono stati ribaltati o modificati con l’avvento del democratico Joe Biden alla Casa Bianca. I successi vantati da Netanyahu nella ammirevole lotta alla pandemia e nel consolidamento della pace con il mondo arabo dovrebbero prevalere, nella considerazione degli elettori, sulle sue traversie giudiziarie (con la ripresa del processo per presunta corruzione e abuso di ufficio) che invece i suoi avversari considerano preminenti.