Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santo Stefano a cura di Ermes Dovico
COMUNISMO CINESE

Elezioni farsa a Hong Kong per confermare il potere di Pechino

Ascolta la versione audio dell'articolo

La popolazione di Hong Kong esprime la sua protesta contro il regime di Pechino non andando a votare. Nelle elezioni locali solo il 20% poteva essere eletto, gli altri sono di nomina governativa.

Esteri 13_12_2023
Elezioni a Hong Kong (La Presse)

La popolazione di Hong Kong, dopo la repressione subita ad opera della Cina, non può più esprimersi votando, neppure nelle elezioni locali per i consigli distrettuali. E quindi solo il 27,5% dei cittadini si è recato alle urne domenica 10. Nella scorsa tornata elettorale, quattro anni fa, nel pieno della protesta contro la legge sull’estradizione (premessa della fine dell’autonomia di Hong Kong) gli elettori erano stati il 71,2% degli aventi diritto. È come se, questa volta, avessero votato solo quelli che nel 2019 non si erano recati alle urne. Anche i risultati sono speculari e opposti rispetto a quelli della precedente tornata elettorale: i seggi sono occupati quasi completamente da consiglieri comunisti o filo-Pechino, mentre nel 2019 i democratici avevano più dei due terzi dei seggi.

Le elezioni distrettuali di Hong Kong sono un esempio lampante di come il Partito Comunista Cinese sia riuscito a svuotare, dall’interno, quel poco di democrazia consentita alla ex colonia britannica. Nel 2019, appunto, avevano stravinto i democratici, determinati a preservare l’autonomia della città dall’ingerenza sempre più lampante del regime di Pechino. Dopo l’imposizione della nuova Legge sulla sicurezza nazionale, nel 2021 quasi tutti i consiglieri eletti due anni prima avevano dovuto rassegnare le dimissioni, perché non avevano prestato giuramento di fedeltà “patriottica” alla Repubblica Popolare Cinese. Infine, prima del voto, il regime ha anche calato su Hong Kong una riforma elettorale per i voti locali: solo il 20% dei rappresentati sarebbero stati scelti dagli elettori, gli altri nominati da commissioni formate da rappresentati cooptati dal governo. E questo spiega la bassissima affluenza: votare è ormai inutile.

Il governo, nonostante la farsa, ha fatto di tutto per incoraggiare i cittadini ad andare alle urne: sconti, incentivi, eventi, pullman di anziani portati al voto, nulla è servito a ottenere la mobilitazione e la legittimazione popolare che, probabilmente, Pechino e il governatore John Lee cercavano. In compenso, sei attivisti sono stati arrestati per aver organizzato proteste (piccole, pacifiche e simboliche) di fronte ai seggi elettorali. Fra questi anche tre membri del gruppo di opposizione Lega dei Socialdemocratici, la presidente Chan Po-ying e i vicepresidenti Dickson Chow e Yu Wai-pan, rei di aver organizzato una manifestazione di fronte al seggio di John Lee. Un altro dissidente, Koo Sze-yiu, è andato a processo, pur avendo 77 anni ed essendo gravemente malato. La sua colpa è quella di aver simbolicamente depositato una bara nell’ufficio della commissione elettorale.

Il voto pilotato è solo l’ultimo dei tanti passaggi con cui la Cina ha cambiato per sempre la piccola e dinamica realtà di Hong Kong, una città restituita dagli inglesi alla Repubblica Popolare nel 1997 (dopo 99 anni di dominio coloniale) e che avrebbe dovuto mantenere piena autonomia, anche legale, fino al 2047. Il passaggio più drastico dalla relativa libertà al pieno totalitarismo è stata la Legge sulla sicurezza nazionale. Ma anche le altre leggi, locali, sono state completamente sovvertite, pur senza cambiamenti drastici. Nella sua testimonianza dal carcere, l’avvocatessa Chow Hang-tung lo spiega così: «A Hong Kong, migliaia di manifestanti oggi sono in carcere sulla base di una legge di epoca coloniale sull'ordine pubblico, non in base a una legge fatta da Pechino. L’arma preferita dalla nostra polizia per colpire la libertà di parola è una legge britannica a lungo sopita, la legge sulla sedizione. Il mese scorso, un uomo che ha scattato alcune foto in cima a una collina con slogan tenuti in mano è stato arrestato per presunta violazione delle norme di protezione del paesaggio. Vediamo anche le leggi sul riciclaggio di denaro citate come motivo per rifiutare i servizi bancari alle Ong e ai dissidenti, le leggi sugli agenti stranieri abusate per strangolare e diffamare le organizzazioni per i diritti, e le norme antincendio ed edilizie utilizzate come un’arma per molestare i negozi e i gruppi con simpatie per la democrazia».

L'avvocatessa spiega bene quanto questo percorso di discesa nel totalitarismo sia subdolo: «Molte delle peggiori violazioni dei diritti umani degli ultimi anni sono state sanzionate o applicate dai tribunali, e non perché i giudici abbiano improvvisamente dimenticato le nostre leggi sui diritti umani. Piuttosto, queste leggi sono state reinterpretate in modo compatibile con le gravi violazioni dei diritti umani, attraverso un sottile cambiamento del significato di parole e concetti che sono parte integrante del discorso». In particolare i concetti distorti dai comunisti sono tutti quelli alla base dei nostri sistemi democratici e liberali: «I diritti non riguardano ciò che gli individui possono far valere nei confronti dello Stato, ma il conferimento allo Stato del potere di salvaguardare i "diritti" del popolo. La democrazia non riguarda i cittadini che chiedono conto ai leader attraverso la libera associazione, l'espressione e le elezioni, ma i leader che "gentilmente" ascoltano la voce del popolo attraverso canali controllati», come si è visto anche in queste ultime “elezioni”.

Mentre Chow Hang-tung è in carcere, così come tanti altri importanti dissidenti (come l’imprenditore ed editore Jimmy Lai), altri hanno scelto l’esilio volontario. Fra questi ultimi c’è anche Agnes Chow, dissidente cattolica, trasferitasi in Canada per perfezionare gli studi e decisa a non tornare mai più nella sua città natale. Prima di lasciarla partire, il Partito l’ha sottoposta a un programma di rieducazione, portandola in Cina a visitare musei sul progresso tecnologico di Pechino e la sede della Tencent, società big tech cinese. Di quella esperienza, ora ricorda: «In tutta franchezza: non ho mai negato lo sviluppo economico della Cina, ma per un Paese così potente mandare in prigione le persone che lottano per la democrazia, limitare la loro libertà di entrata e di uscita e richiedere l'ingresso in Cina per visitare mostre patriottiche in cambio di passaporti, non è forse un esempio di vulnerabilità?».