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MEDIO ORIENTE

Egitto, gli Usa scricchiolano, la Russia arriva

Putin dà il suo pubblico sostegno al generale Al Sisi, nuovo uomo forte dell'Egitto e probabile futuro presidente. E promette forniture di armi. Obama sta pagando l'errore di aver appoggiato Morsi e i Fratelli Musulmani.

Esteri 14_02_2014
Al Sisi

«Stringendo nuove relazioni con Mosca l'Egitto non mira a sostituire nessun Paese». Lo hanno ripetuto a più riprese sia il generale al Sisi sia Vladimir Putin in queste ore. E beato chi ci crede (soprattutto se abita a Washington). Perché è davvero difficile considerare un fatto «normale» che il nuovo uomo forte dell'Egitto - candidato ancora in pectore alla presidenza - compia la sua prima visita all'estero recandosi proprio a Mosca. E per di più lo faccia sbandierando ai quattro venti niente meno che un accordo da due miliardi di dollari per la fornitura di armamenti. La prima in arrivo dalla Russia dai tempi della clamorosa svolta di Sadat nel 1973, che portò l'Egitto dal campo dell'Unione Sovietica a quello degli Stati Uniti.

La visita di al Sisi a Mosca è la dimostrazione più chiara che sono in pieno movimento gli equilibri geopolitici nel Medio Oriente uscito dalle primavere arabe. E a furia di brancolare a destra e a sinistra senza una vera strategia, Barack Obama - il presidente che nel giugno 2009 era andato al Cairo pensando di plasmare un mondo arabo a sua immagine e somiglianza - ora rischia seriamente di far finire in un angolo gli Stati Uniti in un Paese come l'Egitto, che per quarant'anni è stato un punto di riferimento fondamentale per Washington nella regione. Le armi russe tornano in Egitto, come ai tempi della Guerra fredda, quando Nasser orbitava stabilmente nella sfera dell'Unione Sovietica.

Ci volle la guerra dello Yom Kippur - la più strana delle guerre arabo israeliane, quella finita per il Cairo con una non-sconfitta trasformata in vittoria - per portare a compimento l'avvicinamento con Washington. Il resto, poi, venne di conseguenza: Camp David, il viaggio di Sadat a Gerusalemme, ma anche le massicce forniture militari americane sulle quali Mubarak ha costruito il suo lungo regno. Con l'avvento al potere dei Fratelli musulmani l'amministrazione Obama ha provato a giocare la carta del pragmatismo, concedendo un apertura di credito a Mohammed Morsi. Da questi subito ripagata nel novembre 2012, quando tolse le castagne dal fuoco a Washington nella cruentissima fiammata di guerra tra Israele ed Hamas, durata appena una settimana a Gaza, ma con ripercussioni politiche che un giorno forse cominceremo a misurare.

Quello per la diplomazia americana è stato infatti l'inizio della fine; perché Morsi ha presentato il conto con gli interessi, sfruttando questa posizione per imprimere al Paese la sua svolta islamista. È iniziata così la crisi egiziana, trascinatasi per mesi e sfociata poi nel colpo di mano dei militari del luglio scorso. Solo che - come ogni idealista che vuol fare il pragmatico - l'amministrazione Obama in tutto questo si è ritrovata senza più una bussola. Prima è stata incapace di contenere sul serio la svolta autoritaria dei Fratelli musulmani; poi - tutto d'un tratto, dopo l'intervento dei militari - ha recuperato la sua attenzione agli ideali di libertà e democrazia. Con il risultato strabiliante di esser riuscita almeno su una cosa a unire gli egiziani: che siano sostenitori di al Sisi, giovani liberal o islamisti, oggi al Cairo tutti ce l'hanno con gli Stati Uniti.

Washington congela l'ennesimo rinnovo delle forniture di armi, in attesa di vedere come andrà la transizione democratica in Egitto? Al Sisi è andato a Mosca, che oggi non aspettava di meglio. E Putin ieri si è spinto parecchio in là, dando il suo imprimatur al generale che in teoria (ma solo quella) non sarebbe ancora ufficialmente il candidato alla presidenza dell'Egitto: «La sua candidatura è una decisione molto responsabile - gli ha detto pubblicamente - Da parte mia e da parte del popolo russo le auguro il miglior successo».

Adesso, quindi, al Sisi potrà fare la voce grossa con Washington. E Putin può mettere nel paniere un ulteriore risultato nel ritorno in grande stile della Russia in Medio Oriente; un gioco fatto di una complessa rete di interessi politici, economici e militari. Quanto stia contando la sua posizione nella crisi siriana è sotto gli occhi di tutti. Ma non c'è solamente questo aspetto. Mosca - ad esempio - sta cercando anche di sfruttare la nuova alleanza con Teheran per fare fronte comune sulle questioni energetiche: Putin sta preparando un viaggio in Iran che si annuncia cruciale da questo punto di vista.

Nel frattempo anche in Iraq la Russia sta riguadagnando terreno sugli Stati Uniti: la Lukoil si aggiudicata una lunga serie di contratti petroliferi e nel 2012 il governo di al Maliki è diventato il terzo maggiore acquirente di armi russe. Nel Golfo Persico - poi - Mosca ha incrementato gli investimenti e - tanto per non nascondere le sue ambizioni - ha fatto partire Rusiya Al-Yaum, una versione in lingua araba dell'emittente televisiva Russia Today. Persino in Israele Washington comincia a sentire sul collo il fiato di Mosca; perché il milione di ebrei russi immigrati in Israele negli anni Novanta è un fattore che conta e oggi a Gerusalemme sta tornando protagonista il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Insomma: in Medio Oriente mentre gli Stati Uniti scricchiolano la Russia avanza. E non sembra proprio aver intenzione di fermarsi presto.