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L'ANALISI

Egitto e Tunisia, dalla rivolta via Facebook alla rivoluzione

In Tunisia e in Egitto sembra di assistere a rivolte senza programma e senza leader, capaci di rovesciare dei regimi. Davvero è tutto opera di Facebook e Twitter? In realtà le cose sono più complesse, e già cominciano a spuntare i «poteri forti» interessati al cambiamento. Ecco come...

Attualità 27_01_2011
egitto disordini
In Tunisia e ora in Egitto sembra di assistere a rivolte senza programma e senza leader, che tuttavia riescono a mettere in crisi regimi sulla cui stabilità molti diplomatici di lungo corso erano disposti a giurare. Di fronte a un fenomeno che sembra assolutamente nuovo si cercano, come sempre accade, spiegazioni nuove. Una delle più diffuse è che queste rivolte - come altre in Ucraina, in Moldavia, in Kirghizistan - sono un prodotto di Facebook e di Twitter. I tentativi dei relativi regimi di controllare questi strumenti sono falliti. Ci riescono solo la Cina, che blocca quasi tutti i giorni Facebook, spendendo però somme enormi, e la Corea del Nord, che ha risolto il problema alla radice bloccando l'accesso a Internet e perfino alla corrente elettrica alla stragrande maggioranza dei suoi infelici cittadini.

Chi ragiona così ci spiega che anche la vittoria elettorale di Barack Obama - ma più ancora quella nelle primarie, contro la macchina che sembrava imbattibile di Hillary Clinton - è nata da Facebook, ora usato anche dai suoi avversari, che hanno imparato la lezione, con i Tea Party. E nelle maglie del social network si è impigliato in Italia il PD con le sue primarie, perché Vendola spopola su Facebook, da cui personaggi come D'Alema sono invece pressoché assenti.

Questi ragionamenti sono insieme veri e falsi.
Presi alla lettera, per la sociologia sono esempi da manuale del determinismo tecnologico, vecchia e screditata ideologia di cui è incolpato - ma ci vorrebbe qualche distinguo - il sociologo ed economista statunitense di origine norvegese Thorstein Veblen (1857-1929). Per i deterministi le innovazioni tecnologiche determinano automaticamente cambiamenti sociali e politici. La loro tesi non è più molto popolare in una sociologia contemporanea dominata dalle teorie della costruzione sociale, per cui anche la tecnologia - o più esattamente la maniera in cui la tecnologia è utilizzata - è socialmente costruita. La posizione della maggioranza è formulata in una teoria detta SCOT, «social construction of technology», cioè costruzione sociale della tecnologia, che deve molto a un famoso articolo del 1984 di Trevor Pinch e Wiebe  Bijker.

Questo dibattito non è nuovo. È vecchissimo. Tre secoli prima di Facebook, nel Settecento, si discuteva se la stampa, mettendo a disposizione di molti la Bibbia, avesse provocato la Riforma protestante ovvero al contrario la Riforma protestante, nata per tutt'altre ragioni, avesse poi favorito il successo della stampa. I marxisti, che appena vedono una nuova forma di determinismo si entusiasmano, non hanno aspettato Veblen per proporre qualcosa che non si chiamava determinismo tecnologico ma gli assomigliava parecchio.

Nel determinismo tecnologico c'è un granello di verità. Le nuove tecnologie sono importanti, beneficiano chi le usa, anche in politica e in religione, e soprattutto fanno molto danno a chi le ignora. Un partito ma anche una Chiesa che ignorassero completamente la televisione e Internet oggi si ridurrebbero rapidamente ai minimi termini, a meno che si tratti appunto del partito unico e della religione comunista che divinizza il «caro leader» nella Corea del Nord.

Ma è vero anche il contrario? Si può costruire una rivoluzione, un partito, un leader solo via Facebook o Twitter? Da anni ci si chiede se questa costruzione può avvenire tramite la televisione, e l'esempio offerto in decine di libri stranieri è Silvio Berlusconi. Ma in Italia sappiamo che non è così, e ne abbiamo anche le prove. Berlusconi non è un puro prodotto televisivo, e continua a vincere elezioni anche ora che la grande maggioranza delle trasmissioni televisive più viste dagli italiani lo sbeffeggia.

La televisione, e anche Facebook o Twitter, sono necessari - così che ignorare questi strumenti è pericolosissimo - ma non sufficienti. Sono un punto di partenza, non un punto di arrivo.

Benedetto XVI, al solito, è molto più avanti di tanti commentatori giornalistici, anche perché conosce la teoria sociale contemporanea attraverso letture dirette e non solo per sentito dire. Nel messaggio reso pubblico lunedì scorso per la Giornata delle Comunicazioni Sociali, ampiamente commentato su La Bussola Quotidiana, ci ha spiegato che Facebook è uno strumento meraviglioso - o pericoloso, a seconda di chi e come lo usa - per un primo contatto, ma perché ne nasca qualche cosa di solido e di vero occorre poi passare dall'«amicizia» virtuale a quella reale attraverso l'incontro personale. Quel che rimane nel mondo chiuso di Facebook e non ne esce di rado produce frutto.

Ma, si dirà, e Obama? Per lui è andata proprio come dice il Papa. Molti volontari lo hanno conosciuto e si sono conosciuti su Facebook ma poi si sono scambiati i numeri di cellulare, si sono incontrati, hanno aperto sedi e gazebo e sono scesi per le strade e nelle piazze. E lo stesso hanno fatto i Tea Party.

E la Tunisia? E l'Egitto? Qui i dibattiti ricordano quelli sul rapporto fra Rivoluzione francese e proteste del 1789 contro la «vie chère», il rincaro dei prezzi che riduceva alla fame molti francesi poveri. Le seconde favorirono certamente la prima. Per gli storici marxisti si trattava di proteste puramente spontanee, per i teorici del complotto - favorevoli o contrari al suo esito - di una falsa spontaneità organizzata nell'ombra dagli avvocati borghesi e giacobini che volevano rovesciare la monarchia.

Una risposta a tutt'oggi insuperata a queste domande sul 1789 venne dallo storico francese,  prematuramente scomparso nella Prima guerra mondiale, Augustin Cochin (1876-1916). Secondo lui le proteste economiche spontanee sarebbero rimaste pura rivolta, senza diventare rivoluzione, se non fossero entrate in una meccanica orientata, anche tramite le gazzette, non da un solo «grande vecchio» ma da un lavorio di «società di pensiero» nascoste, concorrenti tra loro ma tutte interessate all'esito rivoluzionario.

Cochin può guidarci a capire anche l'Egitto e la Tunisia, certo passando dalle gazzette a Facebook e Twitter. Le rivolte contro la «vie chère» sono in buona parte spontanee, perché la vita è davvero troppo cara. Ma non sono autonome, o se rimangono autonome non c'è Facebook che tenga e la rivolta non riesce a diventare rivoluzione. Dove il passaggio si compie è all'opera non un singolo grande complotto ma una pluralità di «società di pensiero» nel senso di Cochin, che in questi Paesi fanno capo in parte all'islam politico, in parte a «poteri forti» di vario genere di cui in Egitto è simbolo un potente punto di riferimento delle lobby internazionali come Mohamed El Baradei.

Facebook e Twitter servono, e come. Ma alla fine, come diceva Joseph de Maistre (1753-1821), gli elementi di tutte le rivoluzioni, nonché di tutte le restaurazioni, sono gli uomini.