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COMUNISMO

Eduard Shevardnadze, morte di un'illusione

Eduard Shevardnadze: muore l'ultimo ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica e uno dei principali architetti della Perestrojka. Quella grandiosa riforma fallì, non perché fu condotta male, ma a causa della natura stessa del comunismo sovietico.

Cultura 09_07_2014
Eduard Shevardnadze

La morte di Eduard Shevardnadze (1928-2014), l’ultimo ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica, nonché ex presidente della Georgia indipendente, ha ricevuto un’attenzione mediatica relativamente scarsa. Non manca chi lo rimpiange, non manca neppure chi lo accusa di aver gettato via il bambino (l’Urss) assieme all’acqua sporca (la crisi del sistema comunista sovietico). Le etichette più frequenti che gli vengono attribuite sono quelle di “architetto” o “stratega” della Perestrojka, la grande riforma dell’Urss tentata dall’ultimo presidente Michail Gorbaciov. Tuttavia non si può far a meno di notare, nemmeno nei coccodrilli più ossequiosi, la sua parabola politica degenerativa nella Georgia indipendente, dove regnò incontrastato per un decennio, dopo la fine dell’Urss, per finire scacciato a furor di popolo nel 2003, da una rivoluzione democratica. Proprio lui, architetto delle riforme, venne defenestrato dai riformatori, come un qualunque vecchio leader post-sovietico aggrappato al potere.

Dai commenti della stampa italiana e dalle dichiarazioni ufficiali nell’ex Urss, non si riesce a comprendere come mai la Perestrojka sia fallita: Shevardnadze, si dice spesso, avrebbe voluto che le riforme accelerassero, ma Gorbaciov temeva la reazione dei “falchi” e lo licenziò. Quando lo ri-nominò alla carica di ministro degli Esteri, dopo il fallito golpe di Mosca, condotto dai “falchi”, era però troppo tardi perché l’Urss potesse essere riformata e salvata. Se si dà retta a questa vulgata storiografica, però, non si capisce come mai, una volta alla presidenza della Georgia, cioè libero di applicare le sue idee, Shevardnadze si sia “trasformato” in un leader post-comunista conservatore del vecchio sistema. Qui subentra un’altra giustificazione: la Georgia era lacerata da un grave conflitto etnico (il separatismo di Abkhazia e Ossezia del Sud) e sottoposta alla forte pressione della Russia. Ma queste caratteristiche sono anche le stesse della Georgia attuale. E allora non si capisce come mai, nel decennio successivo, il presidente Mikheil Saakashvili, l’uomo che sconfisse Shevardnadze, è riuscito a portare a termine un programma riformatore molto ambizioso, sia politico che economico, che ha avvicinato il Paese agli standard dell’Unione Europea. E questo nonostante una guerra con la Russia e la secessione di fatto delle due regioni separatiste. Shevardnadze, nel suo decennio di presidenza, non ci è riuscito o, piuttosto, non ha voluto?

Per comprendere appieno queste contraddizioni, occorre capire, prima di tutto che cosa fosse la Perestrojka, la riforma dell’Urss di cui Shevardnadze era uno degli architetti principali. La Perestrojka nacque dalla mera constatazione che l’Urss avesse ormai perso la corsa agli armamenti con gli Usa e soprattutto fosse entrata in una crisi economica irreversibile, iniziata già negli anni ’70. La Perestrojka non aveva affatto l’obiettivo di trasformare l’Urss in una democrazia socialista, ma solo quello di far prendere fiato al sistema comunista. La riforma aveva tre componenti. La Perestrojka propriamente detta era la parte economica: dare maggior potere decisionale alle aziende di Stato, introducendovi una mentalità manageriale all’occidentale, ma senza arrivare alla piena reintroduzione della proprietà privata. Alla Perestrojka sarebbe seguita la Uskorenia, o accelerazione della produzione. Infine sarebbe dovuta arrivare la Glasnost, trasparenza, per concedere maggior libertà di espressione anche ai dissidenti. Fatte in quest’ordine, le tre riforme avrebbero dovuto trasformare l’Urss in un sistema, sempre comunista, ma più efficiente e soprattutto accettato dal suo popolo, libero di esprimere la sua approvazione dopo il conseguimento del previsto successo economico. La Perestrojka avrebbe dovuto avere il suo corrispettivo anche all’estero. Shevardnadze, in particolar modo, fu l’artefice della “Dottrina Sinatra” (dalla canzone “My Way”): ciascuno Stato satellite, dalla Germania Est all’Afghanistan, avrebbe dovuto fare da sé, compiere il proprio percorso riformatore seguendo le linee tracciate da Mosca.

Questo grande progetto fallì a causa della natura stessa del comunismo sovietico, così come l’aveva impostato Lenin nel 1917. Il primo leader sovietico, infatti, aveva seguito alla lettera l’utopia atea di Marx: fare la rivoluzione nel nome del proletariato in un solo Paese, in attesa che divenisse globale, fino alla dissoluzione dello Stato “borghese” in tutto il mondo e alla realizzazione del paradiso in terra, con il superamento di classi, proprietà, individualità, leggi e autorità. Tuttavia la rivoluzione si fermò in Russia e non dilagò affatto. Posto di fronte alla necessità di amministrare un Paese (e Marx, nella sua voluminosa produzione filosofica ed economica, non aveva lasciato istruzioni su come governare), Lenin non fece altro che concentrare tutto il potere, politico, militare, culturale ed economico, nelle mani di uno Stato totalitario monopolizzato dal suo Partito. Come nota uno dei più lucidi sovietologi contemporanei, lo storico Richard Pipes, né Lenin, né i suoi successori, fino a Chernenko (1984-’85), poterono rinunciare all’idea di una rivoluzione mondiale, da realizzarsi attraverso la guida centralizzata, con mano ferma e talvolta con il pugno di ferro, di tutti i partiti, i movimenti e i gruppi insurrezionali comunisti fedeli al disegno di Mosca. La Russia sovietica non poteva essere altro che una mera “rampa di lancio” della rivoluzione mondiale. In un sistema simile, il potere deve essere tutto concentrato nelle mani di una élite rivoluzionaria ristretta e ben consapevole della sua missione, dunque è incompatibile con qualunque forma di decentramento. In parole povere: era un sistema non riformabile.

Non a caso, a fallire fu proprio la Perestrojka. All’interno del sistema economico sovietico, tutto pianificato da Mosca, non fu possibile alcun serio decentramento. L’economia rimase nelle mani del Partito (e dopo la dissoluzione dell’Urss passò direttamente al controllo degli “oligarchi” locali), non fu possibile introdurre alcun tipo di concorrenza, né di gestione manageriale perché mancavano le basi del mercato: non c’erano diritti di proprietà, non c'era neppure un sistema libero di determinazione dei prezzi, che erano fissati dalle autorità sovietiche e non dalla legge della domanda e dell'offerta. In compenso, procedettero ugualmente le altre due riforme: l’accelerazione e la trasparenza. Come scriveva ironicamente il dissidente Vladimir Bukovskij già nel 1987: “Di fatto, abbiamo ottenuto un’accelerazione drammatica, senza riuscire a mettere in moto la ristrutturazione, il tutto in un clima di perfetta trasparenza. Immagina cosa significa? A che pro un’accelerazione senza Perestrojka, se la Glasnost permette a ciascuno di rendersene conto? È come pedalare su una bicicletta senza ruote di fronte a una folla che ti deride”. La folla, non solo derise la sua classe dirigente, ma la travolse in appena due anni, prima negli Stati satelliti, poi nella stessa Urss. Il 4 giugno del 1989 concedettero le elezioni parziali in Polonia, e i comunisti persero. Nel novembre del 1989 venne abbattuto il Muro di Berlino e in due mesi tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale caddero. Una volta liberi di esprimersi, lungi dall’approvare i loro sistemi comunisti, i cittadini europei orientali li bocciarono alle urne e nelle piazze. Poi toccò alle stesse repubbliche sovietiche, appena due anni dopo.

Non stupisce che, dopo la caduta dell’Urss, Shevardnadze si sia “trasformato” nel leader post-sovietico e autoritario della Georgia. Quella era la sua formazione e quello il suo orizzonte ideologico. Il comunismo non seppe riformarsi e divenne un sistema di pura conservazione del potere, così come è tuttora nella maggior parte delle repubbliche ex sovietiche. In Cina, i dirigenti del PCC lo hanno capito e, non a caso, mantengono il potere col pugno di ferro (finché ne avranno la forza). Con Shevardnadze non è morta la speranza, ma l’illusione che il sistema sovietico potesse riformarsi.