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LA CRITICA

Eco, quelle banalità sul Medioevo e sul Manzoni

A scuola, la pressoché totalità degli studenti conosce il Medioevo dopo aver aver letto il, romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa. Eco ha descritto l’inveterato luogo comune di un’epoca oscurantista e buia. Così come ha trattato i Promessi sposi del Manzoni come il romanzo della superstizione. Eppure la sua morte…

Cultura 22_02_2016
Umberto Eco

Quando scompare un personaggio importante, sono sempre preso in prima istanza da un senso di sgomento e di silenzio, simile a quanto descrive Manzoni quando viene a conoscenza della morte di Napoleone, personaggio certamente paragonabile a pochi altri, vero protagonista assoluto della sua epoca. 

Lo scrittore milanese si chiede: «Fu vera gloria?». Dopo aver indicato subito che saranno i posteri a decretare il valore del suo operato, in conclusione dell’ode Manzoni specifica che in ogni caso la gloria umana è ben poca cosa di fronte all’eternità e alla salvezza, è quest’ultima quindi da ricercare in ogni modo e da auspicare con la preghiera per chiunque ci ha lasciato. Per questo come ultimo saluto al grande Umberto Eco, scomparso nella sera di venerdì 19 febbraio, voglio pregare per lui, come farei per una persona cara.

Nato nel 1932 ad Alessandria, Eco è stato docente universitario, saggista, giornalista, romanziere, intellettuale molto presente nei dibattiti degli ultimi decenni. Dalla sua prima opera Il problema estetico in San Tommaso (1956) fino alle Riflessioni sul dolore (2014) decine e decine sono stati i saggi che ha scritto su argomenti diversi, mostrando grande curiosità ed interesse. L’anno scorso è uscito il suo ultimo romanzo Numero zero che chiude la teoria dei romanzi, tutti editi da Bompiani, aperta nel 1980 da Il nome della rosa, cui seguirono Il pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), Il cimitero di Praga (2010). Eco si cimentò poi anche nella letteratura per l’infanzia. Negli ultimi mesi insieme ad altri aveva dato vita ad una nuova casa editrice, La nave di Teseo, ad ulteriore comprova dell’instancabile attività culturale che l’ha accompagnato fino all’ultimo.

Al grande pubblico il suo nome è legato soprattutto al suo primo romanzo, Il nome della rosa, pubblicato nel 1980 e tradotto in quarantasette lingue, best seller internazionale che ha venduto trenta milioni di copie. Non posso dimenticare che ero ancora ragazzino quando lessi Il nome della rosa che apprezzai all’epoca per la trama, per gli intrighi e le vicende da giallo. Crescendo e appassionandomi della Commedia, dell’arte e della letteratura medioevali, approfondendo la lettura di storici che riscoprirono quell’età mi resi conto che la visione che il romanziere aveva presentato era molto stereotipata, molto distante dall’epoca che avevo scoperto io, l’epoca delle cattedrali che svettano verso il cielo, della musica gregoriana e polifonica, della Divina commedia, della Cappella degli Scrovegni di Giotto, delle storie di S. Francesco nella Basilica di Assisi, l’epoca di castelli e città turrite.

Chi visitando Siena o S. Gimignano, Todi o Rothenburg o.d.T. o, ancora, le meravigliose città della Provenza avrebbe il ben che minimo dubbio a sconfessare la tradizionale definizione di Medioevo come epoca buia ed oscurantista? Studi particolareggiati sui documenti di archivio dimostrano che il fervore del Duecento e del Trecento (secoli che appartengono a pieno titolo al Medioevo) hanno le loro radici nella società e nella cultura che si è sviluppata nei secoli dopo la caduta dell’Impero romano. Si può dire che Umberto Eco abbia contribuito a far conoscere meglio il Medioevo presso il grande pubblico? Senz’altro sì. Ma quale immagine viene trasmessa ai lettori non dico nei suoi saggi, ma nel suo romanzo che ha venduto più di ogni altro scritto? 

Ne Il nome della rosa superstizione, roghi, streghe, ignoranza, Chiesa corrotta ed eresie sono gli ingredienti dominanti per un mondo di intrighi che sembra più rispondere a esigenze costruttive di un giallo che ad un’ipotesi di ricostruzione storica veritiera. Così, anche a scuola, la pressoché totalità degli studenti conosce questo Medioevo da Nome della rosa. Eco ha descritto nel romanzo l’inveterato luogo comune, per la verità considerato spesso quasi assunto dogmatico, di un’epoca oscurantista e buia, quella che Voltaire aveva definito epoca di barbarie, superstizione, ignoranza, pregiudizio che la storiografia settecentesca aveva diffuso nella produzione letteraria, pamphlettistica, giornalistica e saggistica del secolo. Nonostante la storiografia più recente, guidata da quella Regine Pernoud che è stata definita la “Signora Medioevo”, abbia sfatato questo mito negativo e molte pubblicazioni hanno iniziato a rendere merito a un’epoca di fioritura economica, tecnologica, scientifica, artistica e letteraria, nella cultura comune, però, l’immagine dei “secoli bui” è ben lungi dal morire. 

Rodney Stark scrive: «Per fortuna, negli ultimi anni queste opinioni sono state completamente screditate, al punto che anche alcuni dizionari ed enciclopedie hanno cominciato a considerare i Secoli Bui solamente un’invenzione. Sfortunatamente, però, il mito ha pervaso la nostra cultura così a fondo che la maggior parte degli studiosi continuano a dare per scontato che, come afferma Edward Gibbon, dopo la caduta di Roma ci fu «il trionfo della barbarie e della religione». Qualche anno fa mi imbattei nuovamente in un giudizio di Eco che mi lasciava molto perplesso, questa volta riguardava Alessandro Manzoni. Il grande semiologo e romanziere italiano di fama internazionale, cimentandosi nella riscrittura dei Promessi sposi per la serie «Le grandi storie della letteratura raccontate dai grandi scrittori di oggi», commentò: «Il signor Alessandro sembra amare molto i poveretti, ma certo non sa proprio come aiutarli a far valere i loro diritti. E siccome, per l’appunto, era un cristiano assai fervente, tutti hanno detto che la sua morale era che bisogna rassegnarsi e sperare solo nella Provvidenza». 

Devo ammettere che trovai queste riflessioni davvero riduttive e parziali, in profondo contrasto non solo con le vicende raccontate ne I promessi sposi, ma anche con il contenuto che Manzoni ha voluto veicolare, espresso così bene ne «Il sugo della storia». Pensai allora che spesso non bastano comunque l’immensa cultura, gli studi e le ricerche, la fede stessa è un fatto culturale. Pensai che davvero la fede è una luce che ci permette di vedere la realtà con occhi diversi, di camminare per una strada e di vedere distintamente i segni e gli indizi, di leggerli e di procedere sul sentiero senza uscire dal tracciato. Ho cara l’immagine che nel canto XXII del Purgatorio Stazio offre di Virgilio, quando spiega che l’autore dell’Eneide fu per lui come un lampadoforo che giovò agli altri illuminando la strada che si trovava dietro a lui. In questo modo Virgilio fu determinante alla conversione di Stazio.

Chiudo allora questo ricordo con un saluto e una preghiera per il grande intellettuale italiano e con l’auspicio che nelle prossime settimane si possano esprimere pareri che non siano solo cieche palinodie della sua opera e dei suoi pensieri, ma che al contrario possano essere finestre aperte sulla sua opera e sulla sua persona, ricche di spunti di riflessione per la crescita della cultura e del sapere. Nella società odierna solo ai defunti si dà solitamente il totale consenso. Quando una persona è viva, provoca dibattiti e riflessioni. Vorrei auspicare, quindi, che la letteratura e le opere di questo intellettuale rimangano vive, suscitando spunti critici e riflessioni.