Eccovi la vera Buona Scuola (paritaria)
Anche nella riforma dell'istruzione del governo Renzi prevale la difesa d'ufficio della scuola monopolista statale, a danno di quella paritaria. Ovunque sia stata incoraggiata una maggior competizione delle scuole libere, anche in Svezia, i risultati in termini di risparmio ed efficienza del servizio sono stati notevoli.
Dopo l’ormai consueto rinvio (è stata annunciata per febbraio, siamo a maggio), Matteo Renzi ha finalmente, si fa per dire, varato la riforma della scuola. La classica (non) riforma che non risolve, come sempre, alla radice i problemi del sistema d’istruzione italiano ma anzi, se vogliamo, per molti versi non fa che peggiorare la situazione.
Parliamo, in particolare, del rapporto fra scuole paritarie e pubbliche che verrà ulteriormente sbilanciato a favore di queste ultime. Già perché le paritarie saranno a breve ostacolate anche nella scelta di insegnanti di qualità. La denuncia è arrivata dal palco della 67esima assemblea nazionale dell’Aninsei, l’Associazione nazionale degli istituti non statali di educazione e di istruzione, per bocca del suo presidente Luigi Sepiacci che non ha esitato a definire la riforma «umiliante».
Il motivo è presto detto: secondo l’articolo 21 comma 2, i docenti, una volta laureati e fatto il concorso, verranno assunti dallo Stato per tre anni; nel primo faranno un corso di formazione per ottenere un diploma di specializzazione, mentre nei due anni successivi continueranno a lavorare nelle scuole statali in una sorta di apprendistato. Al termine di questo percorso, il contratto a tempo indeterminato arriverà solo in caso di esito positivo. «Nel paragrafo 8 – ha commentato Sepiacci - si specifica che il conseguimento del diploma è indispensabile per essere assunti nella scuola paritaria. Ciò significa che nella scuola paritaria arriveranno solo gli scarti, quelli considerati non idonei. I docenti che faranno un percorso nella statale per tre anni perché mai dovrebbero venire nei nostri istituti? Se entrano in ruolo, nella statale, difficilmente sceglieranno le nostre scuole».
Quasi a voler malamente riparare il torto fatto alle paritarie, sul fronte fiscale Renzi ha promesso una detrazione di 400 euro per chi iscrive i propri figli in un istituto non statale. Un punto approvato alla Camera dopo una lunga bagarre interna alla maggioranza (qualcuno lo riteneva addirittura un “regalo” troppo grande alla scuola privata) che in realtà non è altro che una di quelle piccole e ridicole mance cui ci ha abituato il presidente del Consiglio. La triste verità è che sono pochi i politici davvero disposti a lottare per la libertà d’educazione quando la difesa della scuola pubblica è più semplice e, in certi contesti, remunerativa dal punto di vista del consenso elettorale.
Ma poi difesa da cosa? Da una scuola paritaria che assorbe meno dell’1% (uno per cento) delle risorse complessive e che offre in cambio immensi benefici al bilancio pubblico? Siamo seri. Piuttosto che continuare a insistere sulla lotta fra pubbliche e private il governo Renzi, se volesse fare una riforma seria, farebbe bene a incentivare libertà di scelta e la qualità. Come? Imitando il modello delle scuole libere che da anni (se non da decenni) sono realtà affermate in tre Paesi sviluppati come Stati Uniti (charter school), Svezia (friskola) e Gran Bretagna (free school). Il loro funzionamento, diverso da un caso all’altro, è accomunato da un principio base: chiunque ha il diritto, a determinate condizioni, di fondare una scuola in grado di competere, a condizioni di parità, con l’istruzione pubblica tout court.
A ogni scuola libera viene infatti data una dotazione (Usa, Gb) o, meglio ancora, vengono finanziate attraverso un voucher assegnato ad ogni famiglia sulla base del costo medio delle scuole municipali di un determinato comune (Svezia). A chi volesse approfondire consigliamo la lettura dell’interessante paper di Andrea Varsori per l’Istituto Bruno Leoni.
Dalla nostra ci limitiamo a riportare alcuni dati che rendono chiaro come un sistema d’istruzione libero e competitivo migliori l’efficienza delle singole scuole. Secondo uno studio citato dall’Ibl il costo degli studenti nei licei liberi svedesi era, nel 2009, inferiore dell’11% rispetto a quello degli studenti dei licei tradizionali. Nel 2011, la situazione era ancora la stessa: secondo i dati dell’Agenzia Nazionale dell’Educazione un alunno nelle scuole municipali costava 10.090€ durante il ciclo primario (6-13 anni) e 11.340€ durante il ciclo secondario (14-18 anni) mentre nelle friskola si attestava rispettivamente a 9.680€ e a 10.240€. Anche i risultati sull’apprendimento erano generalmente migliori nelle scuole libere rispetto a quelle statali.
Risultati simili anche in Gran Bretagna. Secondo i dati dell’Ofsted, dalla New Schools Network (la charity incaricata di aiutare le associazioni che si candidano al Free Schools Programme) e dal National Audit Office costruire una free school è costato di media il 45% (meno della metà) rispetto a una scuola tradizionale, grazie al riutilizzo di edifici preesistenti. Non solo: dalla valutazione dell’Ofsted (di 78 istituti su 255 esistenti) è emerso che il 24% delle free schools è considerato outstanding, ossia di qualità eccellente, mentre tra gli istituti tradizionali questa percentuale si attesta ad appena il 10%.
C’è poi il vantaggio di scegliere liberamente l’offerta formativa e, non da ultimo, di creare un istituto in linea con la propria fede religiosa. In altre parole si ha la libertà di mandare i propri figli in una scuola che non imponga l’ideologia gender come materia curricolare, senza l’obbligo di sborsare soldi per un’istruzione statale di cui non si usufruisce.
Questa, caro Renzi, sarebbe la vera #buonascuola.