Ecco le manette Giudici in trincea contro il governo
Una nuova inchiesta dei giudici provoca un terremoto nel settore dei lavori pubblici e delle Grandi opere. Ma a prescindere da come evolveranno le indagini, si deve cominciare a riconoscere che la corruzione è incentivata e attecchisce nel regno della burocrazia esasperata e dell'ipertrofia legislativa.
Secondo gli inquirenti era un “sistema”, governato dalla Green Field di Stefano Perotti e da un supermanager dei lavori pubblici pressoché onnipotente, Ercole Incalza. Non si muoveva foglia negli appalti delle grandi opere senza che Incalza volesse. Questo e molto altro emergerebbe da carte, intercettazioni, ricostruzioni. Di quel “sistema” facevano parte faccendieri e politici, di centrosinistra e di centrodestra, finiti in manette, indagati o neppure indagati o non ancora indagati.
Il cerchio dell’inchiesta, ma soprattutto i riflettori mediatici, si spostano sul personaggio più noto: il ministro delle infrastrutture, Maurizio Lupi, non indagato, ma che viene tirato in ballo per alcune intercettazioni e per regali a suo figlio da parte di Incalza. L’operazione del Ros disposta dalla Procura di Firenze è appena agli inizi. Impossibile azzardare previsioni su come evolverà l’inchiesta. Incalza è un burocrate sopravvissuto a 7 governi in 14 anni, è un uomo che si muove con disinvoltura nel mondo degli appalti, ne è la memoria storica. Il suo arresto e la retata compiuta lunedì rischiano di provocare una battuta d’arresto nei lavori di completamento di molte grandi opere e, soprattutto, di scatenare un terremoto sul governo, vista la posizione di primo piano ricoperta da Maurizio Lupi (peraltro risulterebbe coinvolto nelle vicenda, anche se non indagato, anche il viceministro dei Trasporti, Riccardo Nencini). Senza contare i danni d’immagine che notizie del genere arrecano all’Italia nell’imminenza dell’apertura di Expo 2015.
Alla magistratura spetterà l’accertamento della verità, ma nel frattempo l’Associazione nazionale magistrati, per bocca del suo presidente, Rodolfo Sabelli, ha preso la palla al balzo per togliersi un sassolino dalla scarpa e per attaccare il governo: «I magistrati sono stati virtualmente schiaffeggiati e i corrotti accarezzati, quando uno Stato che funzioni dovrebbe prendere a schiaffi i corrotti e accarezzare chi esercita il controllo di legalità». Il premier non le ha mandate a dire e ha prontamente reagito: «Frase ingiusta e triste, che fa male. Si può contestare un singolo fatto, ma dire quelle cose lì, avendo una responsabilità, è triste». E ha assicurato l’impegno del governo nella lotta alla corruzione. Ma la posizione imbarazzante di Lupi rischia di togliere credibilità ai propositi dell’esecutivo, anche perché Sel e Movimento Cinque Stelle hanno già annunciato la presentazione di una mozione di sfiducia nei confronti del ministro. Se alla Camera non ci sono possibilità che la mozione passi, a Palazzo Madama l’eventuale saldatura tra opposizioni e minoranza Pd potrebbe riservare sorprese. Ragion per cui Renzi, nelle prossime ore, potrebbe chiedere all’alleato Alfano di sacrificare Lupi sull’altare della stabilità di governo.
Al di là dell’evoluzione che avrà l’inchiesta, rimangono due riflessioni da fare. La prima, in parte svolta dal capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, è che la “legge obiettivo”, fortemente sostenuta proprio da Incalza, ha generato tanti guai nella gestione degli appalti per le grandi opere pubbliche, avendo affidato alle imprese appaltatrici anche la progettazione delle opere e la direzione dei lavori. Quando contenuti progettuali e controllo dell’andamento dei lavori si concentrano in un unico soggetto, il rischio di degenerazioni del sistema è elevato. E lo si è visto anche in quest’occasione. La seconda riguarda l’approccio ideologico a queste inchieste. É innegabile che il tasso di corruzione nel nostro Paese abbia raggiunto livelli di guardia. Ma siamo proprio certi che dipenda tutto dall’immoralità diffusa e dall’inguaribile attitudine dell’italiano a trasgredire e a lasciarsi corrompere? Una spiegazione del genere rischia di far perdere di vista altri aspetti del fenomeno, in primo luogo l’onnipotenza dei burocrati dei ministeri. Anche il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, titolare dell’inchiesta del Mose, infila il dito nella piaga: «Ormai si è dato troppo potere ai dirigenti che fungono da cinghie di trasmissione tra i politici e gli imprenditori. A differenza di Tangentopoli, dove dominavano i politici, oggi al centro della corruzione ci sono i grandi dirigenti. Ma questo sempre per colpa di una burocrazia e di un sistema di leggi inadeguati».
La corruzione attecchisce proprio nel regno della burocrazia esasperata e dell’ipertrofia legislativa: troppe leggi ostacolano la trasparenza e rendono indispensabili i boiardi, i padroni delle carte, gli unici in grado di muoversi nei meandri di procedure e codici. Bisognerebbe quindi semplificare il quadro normativo e accorciare i tempi dei processi. E invece si sta andando verso un potere legislativo delegato alla magistratura, verso l’emanazione di leggi scritte sotto dettatura dei giudici e solo per assecondare un giustizialismo becero ed emotivo. Le tangenti circolano proprio dove non ci sono meccanismi chiari e dove la discrezionalità degli addetti ai lavori è massima. La riforma della burocrazia statale e il superamento delle distorsioni strutturali della macchina della giustizia dovrebbero essere il punto di partenza. Invece si preferisce puntare su misure demagogiche, come l’allungamento dei tempi di prescrizione fino a 18 anni, che finirà per lasciare nel limbo tantissime persone, magari innocenti. Perfino inasprire le pene potrebbe rivelarsi inutile senza affrontare i veri nodi della questione. E i processi mediatici certamente allontanano la risoluzione dei problemi, non la favoriscono.