Ecco cosa vuol dire vivere in Afghanistan
L'Afghanistan è per noi soltanto un lontano fronte di una guerra interminabile contro i Talebani. Ma cosa vuol dire veramente viverci? Lailuma Sadid, una giornalista afgana, ci racconta la sua esperienza in presa diretta: tre regimi, intolleranza religiosa, segregazione sotto i Talebani e un conflitto di cui non si vede la fine.
Lailuma Sadid è una giornalista afgana. Da tre anni vive all’estero, lontano dal suo paese martoriato da un conflitto infinito. Nella sua vita, però, ha fatto a tempo ad assistere a ben tre guerre: quella contro i sovietici (1979-1989), quella civile in cui i Talebani hanno preso il potere (1990-1996) e quella ancora in corso seguita alla cacciata dal potere dei Talebani nel 2001. I quali non si sono affatto rassegnati alla loro sconfitta e mirano a riprendere il controllo del paese. Dell’Afghanistan abbiamo solo una vaga idea. Più che altro lo consideriamo come il fronte di una guerra infinita, in cui investiamo continuamente risorse militari ed economiche senza vedere miglioramenti sensibili. Anche questa settimana è stato approvato dai ministri degli Esteri della Nato un nuovo piano di aiuti economici e di sostegno militare all’esercito regolare che durerà fino al 2020. Lailuma sta scrivendo un saggio che si intitola proprio “La guerra senza fine”. Incontrandola a Bruxelles, le abbiamo chiesto, prima di tutto, perché non si veda alcuna conclusione a questo conflitto.
Lei ricorda il suo paese quando era in pace?
Bella domanda… da quando sono nata io, in effetti, il mio paese è stato perennemente in guerra. Da quattordici anni la comunità internazionale si sta occupando dell’Afghanistan, ma della guerra non si vede la fine. Io penso che sia soprattutto per la nostra disgraziata posizione geografica: abbiamo troppi vicini interessati a controllare il nostro paese, quali il Pakistan, l’Iran e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. I loro interessi sono la nostra disgrazia, evidentemente non vogliono che il nostro paese torni ad essere sicuro e stabile, cercano di sostenere la guerriglia, fornendo armi e addestramento. Nella mia ricerca per la stesura di questo saggio, ho cercato le radici del nostro conflitto e ho trovato soprattutto tante responsabilità dei nostri vicini, soprattutto del Pakistan.
Ma la società afgana non è stanca di questa guerra?
Molto stanca. La guerra non è più considerata accettabile dalla nuova generazione, che chiede soltanto di poter tornare a studiare, lavorare e vivere in un paese sicuro. I giovani stanno cambiando l’identità del paese, non sopportano più Talebani, Daesh (l'Isis, ndr) o qualunque altra formazione estremista. L’Afghanistan, tuttavia, ha un lunghissimo confine con il Pakistan, molto instabile e poroso. Fu il Pakistan a sostenere i mujaheddin contro i sovietici ed è ancora il Pakistan che sostiene i Talebani, istruendoli, consigliandoli, addestrandoli. E questo sembra sia ormai un fatto noto a tutti. Eppure abbiamo, formalmente, buoni rapporti diplomatici con il governo pakistano, che dichiara di volerci aiutare. Anche il Daesh sta incominciando ad arrivare dall’estero attraverso i nostri confini. Ogni volta che la polizia arresta un loro uomo, si scopre che non è praticamente mai un afgano, ma arriva dalla Cecenia, dall’Uzbekistan, dall’Arabia Saudita, dal Pakistan o da altri paesi. La nostra popolazione, soprattutto quella più giovane, non partecipa più a questa guerra terroristica. E sarebbe bene che la comunità internazionale, specialmente la Nato che è direttamente coinvolta in questo conflitto, inizi a far pressione seriamente sul Pakistan, affinché trovi una soluzione alla guerra.
Cosa vuol dire vivere in un paese in guerra, nell'esperienza quotidiana?
E’ difficile da spiegare a un europeo… vediamo… ha in mente la sensazione che avete provato durante e subito dopo l’attacco a Parigi del 13 novembre? Ora siete molto più preoccupati da questo tipo di pericolo e qui a Bruxelles hanno chiuso tutta la città per quattro giorni, anche ora possiamo vedere molti soldati e poliziotti per le strade. Non è facile vivere in una città in guerra. Ecco: da noi questa è la norma. Subiamo questa esperienza tutte le settimane. In una condizione simile, non c’è un domani: non puoi pianificare la tua vita, non puoi pensare a un futuro migliore, non puoi far progetti neppure per l’anno prossimo, perché tutto cambia continuamente e in direzioni improvvisamente. Sopravviviamo, ma non siamo vivi.
Dove sono i luoghi più pericolosi in cui vivere?
Gli attacchi terroristici possono avvenire ovunque e senza preavviso. Ma i luoghi in assoluto più pericolosi sono quelli più vicini alle frontiere: Kandahar, Helmand e ora anche Kunduz dopo la recente battaglia in cui i Talebani l'hanno conquistata. La battaglia è durata più di una settimana prima che il governo ristabilisse il controllo sulla città. Kabul è relativamente sicura, ma i terroristi provano soprattutto a colpire bersagli internazionali e l’esercito nazionale. Non sai mai quando ti trovi vicino a un bersaglio sensibile. Magari stai passeggiando per strada, passa in quel momento un convoglio di auto di funzionari stranieri e… in quel momento un terrorista suicida può farsi esplodere. Sulle strade la sicurezza è aumentata, ma certe rotte, come quella fra Kabul e Kandahar sono ancora pericolose. Si rischia di incontrare gruppi armati del Daesh, che prendono di mira soprattutto gli uomini appartenenti a etnie dell’asia centrale (anche scambiandoli per stranieri), giovani donne e giovani uomini presi anche a caso. Altre rotte, come quella da Kabul a Mazar i Sharif sono invece molto più sicure, sia che si vada in auto o in bus.
Non è passato molto tempo che abbiamo assistito alle foto di una ragazza linciata dalla folla fuori da una moschea di Kabul. Quanto è migliorata la situazione per le donne?
L’Afghanistan è un paese molto islamico e se qualcuno dice qualcosa ritenuta blasfema o ostile, la gente più ignorante non dà nemmeno un’opportunità per dare spiegazioni. Nel caso della donna linciata a Kabul, era stata semplicemente accusata di aver profanato il Corano. Un migliaio di persone ha partecipato al linciaggio, anche la polizia c’era e non ha potuto far nulla. Ma questo non vale per tutti gli afgani, ovviamente. E’ una questione di educazione, agisce con la violenza soprattutto chi è più ignorante. Non saprei dire se questa è la maggioranza del paese.
E gli altri gruppi religiosi come vivono?
Il 99% del paese è musulmano, la minoranza più consistente è quella degli induisti. I cristiani sono ancora meno. Non hanno nemmeno una chiesa in cui pregare. La comunità ebraica si è letteralmente estinta: ormai un solo ebreo (Zablon Simintov, ndr) vive nel paese. Solo durante il regime comunista c’erano due chiese cristiane e la sinagoga aperte. Oggi i cristiani provano a chiedere una maggior libertà e almeno un luogo di culto in cui pregare, ma la loro richiesta viene considerata “inaccettabile”, anche perché la nostra Costituzione stessa stabilisce che la religione dell’Afghanistan è l’islam (benché gli altri culti debbano essere rispettati). Dirsi cristiani, in Afghanistan, è ancora molto pericoloso. Non è un reato, ma si rischia il rapimento o un attentato.
Come si viveva ai tempi del comunismo, ormai lontani?
Non ricordo esattamente, ma rispetto a quel che abbiamo passato dopo, il periodo comunista mi torna alla mente come un momento di libertà. Nessuna donna era obbligata a portare il velo, tantomeno il burqa e poche lo indossavano. Donne e uomini studiavano e lavoravano assieme, potevano viaggiare e tutto questo, oggi, mi sembra solo un sogno.
Probabilmente il vostro è l’unico paese in cui il comunismo è ricordato come un passato migliore del presente… ma poi come si viveva la vita quotidiana ai tempi del regime talebano?
Le faccio solo un paio di esempi. Mio marito si era trasferito in un’altra provincia, all’arrivo dei Talebani. In quei giorni, avevo bisogno di uscire da sola per poter comprare del cibo. Sono uscita assieme a mia figlia, indossando il burqa come prescritto dalla legge. Ma faceva veramente troppo caldo. Dopo essermi guardata attorno e aver constatato che non c’era veramente nessuno in quella strada, ho aperto per un po’ il velo sul mio viso. Tuttavia proprio in quel momento tre miliziani avevano voltato l’angolo, proprio di fronte a me. Mi hanno punito, mi hanno picchiata duramente. Ho provato a supplicarli, a gridare che faceva troppo caldo, che in quel momento non mi vedeva nessuno. Ma più gridavo, più quelli picchiavano forte. “Se gridi più forte, ti sbattiamo in galera”, mi urlavano. Un’altra volta ho deciso di dare lezioni alle figlie più piccole dei miei vicini di casa, perché alle donne era vietato andare a scuola. A casa mia si è creata una piccola classe con dieci, o quindici bambine a seconda dei momenti. Poi la voce si è sparsa e sempre più bambine venivano da me, insospettendo vicini di casa e facendo circolare brutte voci. Finché non sono arrivati i Talebani e mi hanno detto: “Sappiamo che sei una comunista perché provi a dare lezione alle bambine. Se noi vediamo una sola bambina entrare qui ancora una volta, noi vi ammazziamo tutte”. Non hanno minacciato solo me, o solo le mie sorelle e i miei vicini, ma anche tutte le bambine che prendevano lezioni. In quel momento ho deciso di smettere. E ho capito definitivamente che l’Afghanistan non era più un paese per donne.