Ebola sconfitto grazie anche alle multinazionali
Il 29 marzo l’Oms ha annunciato che Ebola non è più un «evento sanitario straordinario», intendendo con ciò che la malattia non costituisce più una minaccia al di fuori dei Paesi in cui l’epidemia è iniziata nel 2013, nei quali tuttavia resta il rischio di nuovi focolai. Un motivo d’allarme è dato dalla scoperta che il virus persiste anche per molti mesi nei sopravvissuti e può essere trasmesso per via sessuale.
Il 29 marzo l’Oms ha annunciato che Ebola non è più un «evento sanitario straordinario», intendendo con ciò che la malattia non costituisce più una minaccia al di fuori dei Paesi in cui l’epidemia è iniziata nel 2013 – Guinea Conakry, Liberia e Sierra Leone – nei quali tuttavia resta il rischio di nuovi focolai. Un motivo d’allarme, a questo riguardo, è dato dalla scoperta che il virus persiste anche per molti mesi nei sopravvissuti e può essere trasmesso, ad esempio, per via sessuale.
Un focolaio, in effetti, è già comparso in Guinea Conakry lo scorso marzo, il giorno dopo che l’Oms aveva dichiarato finita l’epidemia essendo trascorsi nei tre Stati colpiti 42 giorni senza nuovi contagi (il doppio del periodo massimo di incubazione della malattia). Un caso mortale ha riaperto la crisi, e questo per la seconda volta dopo che già il 14 gennaio l’Oms aveva dato l’annuncio ufficiale della fine dell’emergenza, solo per essere smentita poche ore dopo dalla morte di una persona in Sierra Leone. In Guinea Conakry si sono verificati cinque decessi, finora, e attualmente 816 persone entrate in contatto con le vittime sono sotto stretto controllo medico per evitare il propagarsi del contagio.
Liberia e Sierra Leone hanno tentato di proteggersi chiudendo le frontiere con la Guinea. Ma in Liberia il 31 marzo è stato diagnosticato un caso: una donna è morta dopo essere stata ricoverata in un ospedale della capitale Monrovia e da allora una equipe sta tentando di identificare tutte le persone che sono entrate in contatto con lei per metterle in quarantena.
Il 14 gennaio, quando la crisi sembrava conclusa, l’Oms aveva ringraziato tutti gli «eroici operatori sanitari, le autorità nazionali, la società civile, le organizzazioni non governative locali e internazionali e i generosi partners» grazie ai quali era stato possibile realizzare «la colossale impresa di individuare e interrompere tutte le linee di trasmissione della malattia». In realtà, non solo l’impresa restava da completare, ma quei ringraziamenti non erano tutti meritati.
Di certo, non lo erano quelli rivolti ai governi di Sierra Leone, Guinea Conakry e Liberia che per mesi avevano rifiutato di ammettere la portata reale dell’epidemia e quindi di prendere provvedimenti, oltre al fatto che corruzione sfrenata e malgoverno sono responsabili dell’estrema carenza di servizi e infrastrutture nei loro Paesi: la Sierra Leone, ad esempio, dispone solo di due medici e di 40 posti letto ogni 100.000 abitanti. Nell’indice di corruzione 2016 di Transparency International la Sierra Leone è 119a su 170 stati considerati, la Guinea Conakry è 139a, la Liberia 83a.
In compenso, altri soggetti, che pure l’Oms non ha menzionato, hanno dato un contributo notevole all’«impresa colossale» di fermare Ebola. Ai primi allarmi lanciati da Medici senza frontiere, mentre la stessa Oms per mesi avrebbe ancora negato la gravità della crisi e addirittura rifiutato di definire quella in atto una epidemia, la Firestone, ad esempio, da cui dipende il 60% delle esportazioni di gomma della Liberia, ha allestito nelle proprie piantagioni due centri medici di isolamento, ha trasformato i propri furgoni in ambulanze e ha creato cordoni di sicurezza per controllare ingressi e movimenti di persone al fine di proteggere dal contagio i propri 8.500 lavoratori e i loro 71.500 dipendenti.
ArcelorMittal, il colosso dell’acciaio, ha fatto altrettanto. Inoltre, ha organizzato dei corsi allo scopo di informare i propri dipendenti sulla malattia, ha delimitato delle zone cuscinetto attorno alle sue proprietà e ha creato dei presidi medici dotati di personale qualificato. Il risultato è che su 25.000 persone, tra dipendenti e famigliari, in un’area di quasi 1.300 chilometri quadrati, si è registrato un solo decesso.
Le imprese straniere, le multinazionali, sempre accusate di sfruttare risorse e personale nei Paesi poveri senza fornire infrastrutture e servizi, in questo caso hanno riempito il vuoto lasciato da governi inetti e incuranti. Se almeno quei governi prendessero a esempio le misure messe in atto, così efficaci, per predisporre piani di intervento in caso di nuove crisi. Perché l’aspetto più preoccupante nella scoperta di un focolaio in Sierra Leone il 14 gennaio è che il nuovo caso di Ebola non è stato diagnosticato se non dopo la morte del paziente, deceduto a casa sua, quindi assistito e poi sepolto dai famigliari, dopo essere stato dimesso dall’ospedale in cui era stato ricoverato al manifestarsi dei sintomi.
Questo suggerisce che, per quanto riguarda il sistema sanitario, la situazione che ha consentito al virus di diffondersi due anni fa non sia sostanzialmente cambiata. Corruzione e clientelismo contaminano gravemente il servizio sanitario nazionale della Sierra Leone, denuncia un servizio della Bbc del 22 marzo intitolato: «Il sistema sanitario della Sierra Leone troverà una cura contro la corruzione?».