Ebola e non solo. Epidemia fa rima con malgoverno
Strutture sanitarie primitive, sperpero di aiuti umanitari, governi senza scrupoli che nascondono le emergenze. Sono queste le caratteristiche degli stati, soprattutto africani, che vengono decimati dalle malattie virali, come la malaria, la tubercolosi, l'Aids e ultimamente anche l'ebola.
L’epidemia di ebola monopolizza l’attenzione con sviluppi sempre più allarmanti. Notizie recenti su altre malattie non lo sono da meno. Il 16 luglio, a Yumen, in Cina, nella provincia del Gansu, un uomo è morto di peste dopo aver scuoiato una marmotta trovata morta. Sembra essersi trattato di un caso di peste bubbonica: una malattia di cui, se presa in tempo, ormai si guarisce e che inoltre si contrae solo attraverso punture di pulci infette, morsi di roditori e contatti con animali ammalati. Invece la peste polmonare resta una delle malattie più mortali ed è inoltre molto contagiosa perché si trasmette anche da uomo a uomo, per via aerea. Perciò le autorità sanitarie cinesi, nell’attesa che fosse confermata la diagnosi di peste bubbonica, hanno deciso di isolare gran parte della cittadina e hanno posto 151 persone in quarantena.
In Cina la peste è quasi del tutto scomparsa. Negli anni 80 del secolo scorso ne sono stati registrati in tutto circa dieci casi. Tuttavia nel 1996 se ne sono verificati un centinaio e nel 2000 il numero è salito a oltre 250. A Yumen l’ultima epidemia di peste risale al 1977, ma nel Gansu negli ultimi dieci anni si sono avuti almeno dieci casi, isolati prima che il contagio si diffondesse.
Secondo l’OMS, dal 2002 in tutto il mondo ci sono state sette epidemie di peste, dal 1998 i casi sono stati complessivamente più di 24.000, il 98% dei quali in Africa. La peste è ricomparsa nel 2003 in Algeria, ad esempio, a più di mezzo secolo dall’ultima epidemia; dal 2001 a oggi, nella sola Ituri, una provincia della Repubblica Democratica del Congo, ogni anno i casi accertati sono più di 1.000; e nel 2013 in Madagascar ne sono morte 60 persone.
Dall’Asia arriva un’altra notizia preoccupante. Recenti ricerche, condotte su un campione di circa 1.000 malati in dieci paesi dell’Africa e dell’Asia, confermano che la malaria sta sviluppando resistenza all’artemisina, il potente farmaco impiegato nella cura del paludismo in tutto il mondo. Forme di malaria resistenti sono state rilevate in Thailandia, Vietnam, Myanmar orientale e centrale, Cambogia nord orientale e occidentale e Laos meridionale. Non è stata riscontrata resistenza ai farmaci nei tre paesi africani scelti dai ricercatori: Kenya, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo.
Nel 2012, stando agli ultimi dati dell’OMS, ci sono stati circa 207 milioni di casi di malaria (da 135 a 287 milioni) con circa 627.000 morti (da 473.000 a 789.000). Circa metà della popolazione mondiale, in 97 stati, è esposta al rischio di contrarre la malattia. Tuttavia la maggior parte dei casi e il 90% dei decessi si verificano in Africa, in particolare nell’Africa sub-sahariana dove, nonostante i progressi compiuti negli ultimi 15 anni, ogni minuto un bambino muore di paludismo. La resistenza ai farmaci aggraverebbe la situazione, ma in Africa a uccidere sono la mancanza di prevenzione (bonifiche e disinfestazioni) e di medicinali.
Per la stessa ragione, l’Africa sub-sahariana è la regione del mondo più colpita dall’Aids: quasi 25 milioni di sieropositivi su un totale complessivo di 35 milioni. Finora l’HIV ha ucciso più di 39 milioni di persone, 1,5 milioni circa nel corso del 2013, anno in cui si sono registrati 2,1 milioni di nuovi contagi, il 70% dei quali in Africa sub-sahariana.
Seconda solo all’Aids per numero di morti, la tubercolosi nel 2012 ha colpito 8,6 milioni di persone, più di mezzo milione di bambini, e ha causato 1,3 milioni di decessi. Il 60% dei nuovi contagi si è avuto in Asia, ma in termini relativi, rispetto al numero di abitanti, il primato spetta all’Africa, con oltre 255 casi ogni 100.000 abitanti. Anche la tubercolosi ha sviluppato resistenza ai farmaci. Nel 2012 gli ammalati di una forma resistente ai farmaci erano 450.000, distribuiti in tutti gli stati monitorati.
Malaria, tubercolosi, Aids, peste e altre gravi malattie infettive – poliomielite, colera, dengue, lebbra, febbre gialla, ebola… – imperversano soprattutto, quando non esclusivamente, in paesi a basso e bassissimo livello di sviluppo: parte degli stati asiatici e tutti quelli africani che ogni anno l’Undp, l’agenzia ONU per lo sviluppo, colloca al fondo dell’Indice di sviluppo umano.
Non sorprende che proprio quegli stati si trovino invece al vertice dell’Indice degli stati fragili, compilato dal Fondo per la pace: che per “fragili” intende i paesi i cui governi vengono meno alle loro funzioni fondamentali, una delle quali è senza dubbio la prevenzione e la cura delle malattie.
Sono stati che trascurano di sviluppare ricerca medica e strutture sanitarie. Nella Repubblica Centrafricana, ad esempio, c’è un medico ogni 20.000 abitanti e un posto letto ogni 1.000.
Sono stati in cui si sperperano gli aiuti umanitari. Moltissimi sono gli africani che devono alla cooperazione internazionale cure mediche e prevenzione. È grazie ad essa che l’Uganda, ad esempio, ha attuato programmi di lotta all’Aids con buoni risultati. Ma il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria si è visto più di una volta costretto a sospendere i contributi proprio all’Uganda – e anche ad altri stati – dopo aver accertato frodi e distrazione di ingenti somme di denaro da parte di uomini politici e funzionari governativi.
Sono stati che non si preoccupano di garantire servizi essenziali, di vitale importanza. La Nigeria, nel 2000, non ha impedito che alcuni stati della federazione, quelli del nord a maggioranza islamica, rifiutassero di aderire alla campagna mondiale per l’eliminazione della poliomielite. La conseguenza è stata che un ceppo della malattia è sopravvissuto nel paese, dove difatti la malattia resta tuttora endemica, e si è diffuso in altri in cui la poliomielite era stata debellata.
Sono stati, infine, che per ragioni politiche possono negare l’esistenza di una emergenza sanitaria, ritardando gli interventi con drammatiche conseguenze. In Sudafrica per anni il governo ha persino negato l’esistenza stessa dell’Aids per poi affidarsi, una volta riconosciuto il problema, a una “esperta” che si spacciava per medico e che proponeva una terapia del tutto inefficace a base di virodene, un solvente industriale. Solo in seguito, quando ormai il Sudafrica era diventato il paese con la percentuale di sieropositivi più alta del mondo, sono state avviate le politiche sanitarie che hanno permesso a molti sieropositivi di accedere alle terapie antiretrovirali.
Per tutti questi motivi, la gente che vive in quegli stati non si fida delle autorità, non dà retta agli appelli e alle raccomandazioni, ricorre a stregoni e a pratiche tradizionali, teme il ricovero in ospedale, immagina chissà quali secondi fini nelle dichiarazioni governative.
Fino allo scorso anno, invece che “fragili”, il Fondo per la pace li chiamava stati “falliti”: un’espressione decisamente più appropriata. A otto mesi dalla comparsa dei primi casi di ebola, in una situazione da tempo fuori controllo, in Sierra Leone e in Liberia le autorità hanno ordinato all’esercito di presidiare con posti di blocco le zone colpite dall’epidemia per impedire alla gente di uscirne. Sembra lo scenario di un noto film, dove però a isolare la popolazione, e a progettarne al limite lo sterminio, erano gli Stati Uniti, mentre nella vita reale Stati Uniti e comunità internazionale forniscono fondi e personale specializzato impegnandosi in una lotta dall’esito peraltro incerto: non si supplice in poche settimane alla carenza di infrastrutture e all’assenza di sistemi sanitari funzionanti.
L’OMS il 7 agosto ha dichiarato che l’epidemia di ebola in Africa Occidentale è un’emergenza sanitaria internazionale: le vittime sono salite a 930 e i casi accertati in Guinea, Sierra Leone, Liberia e Nigeria sono più di 1.700.