E Renzi ritrova altre due stampelle per il governo
Dopo la votazione al Senato sul disegno di legge Boschi con il “si” decisivo dei voti dei verdiniani, dei tosiani (ex leghisti) e di due senatori di Forza Italia, tre vicepresidenze di importanti commissioni in Senato sono state assegnate al gruppo di Ala. Ciò segna di fatto l’ingresso dei verdiniani in quota maggioranza.
La votazione di mercoledì al Senato sul disegno di legge Boschi ha confermato che il governo Renzi non ha una maggioranza stabile. Il “si” decisivo a Palazzo Madama è stato raggiunto solo grazie ai voti dei verdiniani, dei tosiani (ex leghisti) e di due senatori di Forza Italia. Senza quei sostegni, i partiti di governo si sarebbero fermati a 158 voti, contro i 161 necessari per l’approvazione definitiva. Incidente di percorso? Può essere, ma anche ieri, peraltro alla Camera, dove il premio di maggioranza garantisce ampi margini all’esecutivo, il governo è andato sotto nel voto sull’omicidio stradale (è stato approvato, a scrutinio segreto, un emendamento di Forza Italia, nonostante il parere contrario di Palazzo Chigi).
Qualche scricchiolio nel fronte governativo si avverte. Tanto più che ieri si sono registrati molti mal di pancia nella maggioranza, a causa delle tre vicepresidenze di importanti commissioni in Senato (Finanze, Bilancio e Difesa) assegnate al gruppo di Ala, che fa capo all’ex forzista Denis Verdini. Al di là del dato numerico, queste nomine segnano di fatto l’ingresso dei verdiniani in quota maggioranza, tanto più dopo la votazione del giorno prima sul Senato, nella quale il contributo di Ala era risultato decisivo. Tutto questo non va giù ai dissidenti dem, che attraverso uno dei loro esponenti, Roberto Speranza, chiedono un dibattito in Parlamento. Strani accordi si registrano anche sul fronte dell’opposizione, dove l’uscente Altero Matteoli, di Forza Italia, l’ha spuntata, per la presidenza della Commissione Lavori pubblici, sull’autonomista Vittorio Fravezzi, grazie ai voti determinanti del Movimento Cinque Stelle e per colpa del Pd, che non ha sostenuto in modo compatto Fravezzi.
Segnali di trasformismo ormai alla luce del sole, con esponenti di Forza Italia che si abbracciano con colleghi di Sel. Uno scenario surreale, che suggella una delle ultime abbuffate di poltrone prima del superamento del Senato elettivo e delle prossime elezioni politiche, che alcuni ipotizzano già nel 2017. Ed è proprio su questi scenari che Renzi starebbe riflettendo. La riforma costituzionale avrà un ultimo passaggio parlamentare nel mese di aprile, dopo di che entrerà nel vivo un’esaltante campagna referendaria. A ottobre gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi sul superamento del Senato elettivo e del bicameralismo perfetto. Il premier lega a quell’appuntamento la sua carriera politica. In effetti, se vincessero i “no”, l’impalcatura riformatrice messa in piedi dal governo crollerebbe e l’immagine del renzismo si appannerebbe non poco.
A completare il quadro l’idea, che circola da tempo nei Palazzi del potere, di anticipare dal 2018 al 2017 il voto politico. A supporto di tale ipotesi ci sarebbero una ragione formale e una ragione sostanziale. Quella formale attiene all’eventuale sopravvivenza, fino al 2018, di un organo costituzionale come il Senato che, in caso di vittoria dei “si” al referendum di ottobre, perderebbe ogni legittimazione e resterebbe in vita per un altro anno e mezzo, pur essendo legislativamente “defunto”. Per Renzi potrebbe essere questa una delle argomentazioni per convincere il Capo dello Stato a sciogliere con un anno di anticipo il Parlamento. Contro quest’ipotesi, ovviamente, gli appetiti degli attuali senatori, che, nella certezza di non tornare più a Palazzo Madama, cercheranno di assicurarsi un anno di stipendio e prebende in più, rimanendo incollati alle poltrone fino alla loro scadenza naturale (febbraio 2018).
Sul piano sostanziale, invece, Renzi sa bene che a lui converrebbe andare al voto prima del congresso Pd e della probabile resa dei conti con la minoranza interna. Solo se riesce a votare per le politiche da segretario con pieni poteri e senza veri rivali, può comporre le liste nel modo a lui più congeniale e riservare ai dissidenti le briciole dei seggi alla Camera (il Senato verrebbe rinnovato su base territoriale, secondo quanto prevede la riforma Boschi). Rimane, però, per lui l’incognita Italicum. Se anche il Pd riuscisse a ottenere il premio di maggioranza (340 seggi su 630), il premier uscente non avrebbe la certezza di poter contare su un gruppo coeso. Almeno una cinquantina di quei deputati sarebbero, infatti, espressione della minoranza dem e potrebbero mettersi di traverso nell’azione di governo.
Di qui la necessità di far crescere, anche in vista della prossima legislatura, raggruppamenti centristi filo-renziani in grado di superare lo sbarramento del 3% e di conquistare quei seggi sufficienti a garantire al probabile secondo governo Renzi una navigazione sicura per i successivi cinque anni. Su alcuni provvedimenti, infatti, i 340 deputati Pd potrebbero non votare compatti e a quel punto il soccorso di verdiniani e altri satelliti renziani potrebbe rivelarsi decisivo.