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CAMBIARE PARADIGMA

E' l'ottimismo che fa crescere il paese e non viceversa

Intervista al professor Paolo Preti su occupazione, crescita e Fertility Day. “E’ la cultura che rende forte l’economia e non viceversa”. Una cultura basata sulla fiducia nel futuro è quella che ha reso grande l'Italia, demograficamente ed economicamente in crescita. Non è l'economia forte che fa la buona società, semmai è vero il contrario.

Economia 19_10_2016
Paolo Preti

Nell’arco di 48 ore abbiamo due visioni completamente diverse sull’andamento dell’occupazione in Italia. Una è una statistica della Banca d’Italia che dimostra come i posti di lavoro, per la prima volta, siano tornati ai livelli pre-crisi, come prima del 2008. Ed è un’ottima notizia. L’altra è una statistica dell’Inps che dimostra il contrario: sono aumentati i licenziamenti (+28,3%) e sono diminuite le assunzioni stabili (-32,9%). Non si tratta di cifre false: entrambe le fonti sono affidabili. La prima induce all’ottimismo, la seconda al pessimismo. Il professor Paolo Preti, però, ci invita a cambiare prospettiva. Non dobbiamo essere ottimisti o pessimisti a seconda delle statistiche macro-economiche che leggiamo. Dobbiamo essere ottimisti a prescindere e sarà proprio la nostra fiducia nel futuro a far ripartire la crescita. La Nuova BQ lo aveva intervistato in altre due occasioni per commentare la ripresa e il Def, ora completa il discorso: “E’ la cultura che rende forte l’economia e non viceversa”, spiega il docente di Organizzazione Aziendale presso l’Università della Valle d’Aosta e direttore del Master piccole imprese della Sda Bocconi di Milano.

L’idea più comune, diffusa sia ai tempi dei governi Berlusconi che, in questi ultimi due anni, con il governo Renzi, è che sia la politica a dover creare i posti di lavoro. E’ un modo di pensare da rivedere, a suo avviso?

E’ una grandissima fesseria. I posti di lavoro non sono creati dalla politica, né direttamente né indirettamente. Non li creava la politica neppure quando dirigeva la politica industriale, a maggior ragione non è in grado di crearli oggi. Chi crea posti di lavoro è semmai l’imprenditore. Lo Stato è un pessimo imprenditore. Oggi vediamo che la presenza dello Stato nell’economia si è molto ridotta rispetto a quella che era 40 o 50 anni fa (non ci sono più l’Iri o la Cassa per il Mezzogiorno, per esempio). E’ un pessimo imprenditore e quando diventa datore di lavoro la storia dimostra che i costi unitari per ogni nuovo dipendente sono troppo alti e, mancando una visione strategica, la creazione di posti di lavoro ha effetto solo nel breve periodo. La forza di un’economia in crescita non è certo quella che garantisce un posto in più domani, ma quella che continua a garantire la creazione di impieghi nel lungo periodo.

Quindi la politica non c’entra con l’occupazione?

Non è giusto accreditare l’eventuale successo di un aumento dell’occupazione alla politica, così come non è giusto dare la colpa alla politica se aumenta la disoccupazione.

Uno studente che esce dall’università, però, si attende che qualcuno gli dia lavoro…

La mentalità di un ventenne di oggi è comprensibile. Purtroppo. Il nostro sistema educativo produce laureati che si attendono posti di lavoro garantiti. Dopo cinque anni alla scuola superiore, con insegnanti che concepiscono il loro stesso lavoro come una cosa distinta e distante dal mondo aziendale e dopo qualche anno di università, anch’essa lontana dal mondo della produzione, è scontato che un giovane fresco di laurea si aspetti che qualcuno gli dia lavoro. E anche le famiglie ragionano allo stesso modo. Perché lo studente ha investito energie nello studio e quindi si aspetta una retribuzione sotto forma di lavoro e la sua famiglia, che ha investito nella sua formazione, si attende che vi sia un ritorno, anche economico. Purtroppo, questo è un deficit della nostra cultura, umanistica soprattutto, a qualunque livello. Perché il lavoro non può mai essere garantito. Non è mai esistito un diritto a farsi dare un lavoro. Fino ad alcune generazioni fa era chiaro a tutti che un impiego non potesse essere preteso. Oggi no. Ed è qui che noi dobbiamo investire veramente: cercare di cambiare mentalità. Rendere chiaro a tutti che il lavoro è nelle aziende, che queste ultime nascono dall’iniziativa degli imprenditori. Sosteniamo, semmai, l’opera degli imprenditori, così che possano creare più posti di lavoro. Ma sosteniamo soprattutto la volontà dei giovani a prendere l’iniziativa, mettersi in gioco nel mercato, rischiare in prima persona, posto che la persona ne abbia le capacità.

E’ una questione di mentalità, quindi?

Sì. Se per i primi vent’anni di vita ti dicono che devi fare la tua parte e poi la società ricompenserà il tuo sforzo dandoti un posto di lavoro, non vai da nessuna parte. E’ una questione di cultura, più che di economia. Se, anche spinto dalla famiglia, aspetti che ti passi il posto di lavoro sotto al naso, puoi anche aspettare per anni. Un tuo coetaneo, con le stesse condizioni di partenza, affrontando la stessa fatica, facendo impresa può decollare. Al fondo i temi in gioco sono due: credere in se stessi e dunque avere in mente che il tuo destino è nelle tue mani (e non del politico, della “conoscenza”, dell’amico di famiglia) e poi avere speranza nel futuro. Anche quando un giovane dice che non può permettersi di formare una famiglia e mettere al mondo figli, ciò che gli manca veramente è la fiducia nel futuro.

Infatti la stragrande maggioranza delle critiche al Fertility Day era di natura economica…

Storicamente parlando, vediamo che sono critiche infondate. Gli italiani, anche quelli che emigravano, lasciavano a casa, oltre alla moglie, anche sette o otto figli. Quasi tutti loro sono cresciuti, sono diventati adulti e lavoratori e sono quelli che hanno fatto grande l’Italia. La generazione del dopoguerra è quella che ha reso possibile la nascita dell’Italia industriale. Non vivevano in condizioni migliori di quelle attuali. Anzi! Ma avevano fiducia nel futuro. Oggi calcoliamo quanti figli potremmo permetterci e l’Italia è in stagnazione. L’Italia è diventata ricca, è entrata a far parte delle cinque potenze industriali del mondo, quando ancora la gente aveva un numero di figli molto elevato. Le singole famiglie avevano un tenore di vita certamente peggiore rispetto a quelle delle due generazioni successive, ma il paese cresceva nel suo complesso.

Quando è cambiata questa tendenza e perché?

E’ purtroppo sempre valida una vecchia regola: la povertà incentiva l’intraprendenza e la solidarietà, mentre la ricchezza incentiva l’egoismo e la difesa dei propri interessi acquisiti. E’ una dinamica paradossale, perché ovviamente nessuno vuole la povertà, ma dopo l’uscita dalla miseria cala l’incentivo a crescere. Ed è molto difficile stabilire il momento esatto in cui una generazione inizia a viver bene e tende a chiudersi in se stessa.

Ma in questo caso lei sta dicendo che è la condizione economica che crea una cultura differente?

No, il cambio di rotta è stato prima culturale. E’ stato un cambiamento di mentalità incentivato dal miglioramento delle condizioni materiali, ma causato da una rivoluzione culturale. E questa rivoluzione è avvenuta all’indomani del boom economico, all’incirca dal 1968 al 1973, quando si è messa in dubbio tutta la storia passata. E’ lo stesso periodo in cui il Partito Comunista ha iniziato a trasformarsi in una sorta di “partito radicale di massa”, sposando per la prima volta le cause del divorzio e dell’aborto, condannate ai tempi di Togliatti.

Ma questa tendenza culturale si sta invertendo?

Forse la crisi, paradossalmente, ci è di aiuto: ci aiuta a tornare coi piedi per terra. Ci sono piccoli segnali che lo dimostrano. La Caritas ha, per esempio, rilevato una diminuzione dello spreco alimentare. Speriamo che questo ritorno alla realtà non origini solo una nuova tendenza al risparmio.