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E' l'ora della missione

  • Il Papa annuncia l'Anno della Fede, dall'11 ottobre 2012 fino al 24 novembre 2013,
    al termine della due giorni dedicata
    alla nuova evangelizzazione.
  • Lo slancio missionario è oggi più che mai necessario per rispondere alle domande sul significato di sé e della realtà che albergano nel cuore dell'uomo contemporaneo.
  • La giusta distinzione tra sfera religiosa e sfera politica non ha niente a che vedere con una separazione di tipo laicista: neanche lo Stato
    e la politica sfuggono alla sovranità di Dio.

Attualità 17_10_2011
papa anno fede

Il lungo weekend del Papa - che all'Angelus di domenica 16 ottobre ha ripetuto l'annuncio, già anticipato in mattinata nella Messa, di un Anno della Fede, che avrà inizio l’11 ottobre 2012, 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, e si concluderà il 24 novembre 2013, festa di Cristo Re - si è concentrato sul tema della nuova evangelizzazione, oggetto di un importante convegno a Roma, ma è idealmente iniziato venerdì 14 ottobre con un incontro con i Prefetti italiani, proprio in un momento di tumulti e disordini nel nostro Paese.

Benedetto XVI ha incontrato i Prefetti nel 150mo anniversario dell'unità politica dell'Italia. Come aveva fatto in altri interventi consacrati al centocinquantenario, il Papa ha ricordato che, ben prima dell'unità politica, l'Italia era resa una dalla «presenza del Cristianesimo, che nel corso dei secoli ha fecondato la cultura italiana, suscitando una civiltà ricca di valori universali. Ovunque, infatti, si possono osservare le tracce che la fede cristiana ha impresso nel costume del popolo italiano, dando vita a nobili e radicate tradizioni religiose e culturali e a un patrimonio artistico unico al mondo».

E ancora oggi, «portatrice di un messaggio di salvezza valido per l’uomo di tutti i tempi, la Chiesa cattolica è ben radicata ed operante, in modo capillare, nel territorio italiano. È una realtà viva e vivificante, come il lievito di cui parla il Vangelo (cfr. Mt 13, 33); una presenza significativa, caratterizzata da prossimità alla gente, per coglierne i bisogni profondi nella logica della disponibilità al servizio».

La Chiesa non confonde religione e politica, ma rifiuta pure una loro separazione assoluta: propone una collaborazione, e a tutti offre una piattaforma morale che, in quanto fondata sulla ragione, è accessibile a ogni uomo, credente o non credente. «Rispettosa delle legittime autonomie e competenze, la Comunità ecclesiale considera suo preciso mandato rivolgersi all’uomo in ogni contesto: nella vita culturale, del lavoro, dei servizi, del tempo libero» e «desidera costruire, insieme con gli altri soggetti istituzionali e le varie realtà territoriali, una salda piattaforma di virtù morali, su cui edificare una convivenza a misura d'uomo».

Ai Prefetti, «referenti unitari e principali promotori e garanti del criterio di leale collaborazione in un sistema pluralistico», il Papa ha voluto ricordare che «la pubblica amministrazione, a qualsiasi livello, quale strumento dello Stato, ha come finalità quella di servire i cittadini… Il ruolo di chi lavora nella pubblica amministrazione non va concepito come qualcosa di impersonale o burocratico, bensì come un aiuto premuroso per i cittadini, esercitato con spirito di servizio» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 412).

Invitando i Prefetti a non venire «mai meno all’ossequio alla verità e al coraggio della difesa dei beni supremi», il Pontefice nella parte conclusiva - e forse più importante - del suo discorso ha proposto come esempio il loro santo patrono, sant’Ambrogio (339 o 340-397), che all’improvviso «fu chiamato all’Episcopato, dovendo abbandonare una brillante carriera di alto funzionario pubblico; e non era ancora battezzato! Questo santo Vescovo ammirava e amava l’Impero romano che aveva servito lealmente e generosamente fino ai 35 anni di età, prima di essere scelto come Pastore della Chiesa Ambrosiana. Tale considerazione per la legittima Autorità, coltivata fin dalla giovinezza, è uscita rinvigorita dalla grazia del Battesimo, al punto che egli amava appassionatamente la Chiesa non soltanto nella ricchezza spirituale di verità e di vita, ma anche nella concretezza dei suoi Organismi e degli uomini che la compongono».

Il senso delle istituzioni appreso nel servizio civile preparò Ambrogio a divenire il santo vescovo che fu. «Egli seppe, in un certo senso, trasferire nell’esercizio del ministero pastorale i tratti sostanziali di quell’habitus, che lo distinse e lo pose all’ammirazione di molti quale integerrimo funzionario civile. D’altra parte, diventato Vescovo, seppe indicare ai responsabili delle Istituzioni civili quei valori cristiani che danno nuovo vigore e nuovo splendore all’opera di quanti sono impegnati nella vita pubblica».

Una lezione particolare di sant’Ambrogio che il Papa ha voluto ricordare riguarda il carattere ultimamente sacrale del potere politico. Il Pontefice ha citato il suo commento al Vangelo di san Luca, dove il santo afferma: «L’istituzione del potere civile deriva così bene da Dio, che colui che lo esercita è egli pure ministro di Dio». «Da qui consegue - ha commentato Benedetto XVI - che anche la funzione civile è talmente eminente e insigne da rivestire un carattere quasi "sacro"».

E lo stesso sant'Ambrogio è un esempio dei frutti che scaturiscono per la vita civile quando il carattere «sacro» della funzione pubblica è preso sul serio. Il santo di Milano, «animato da grande amore e rispetto tanto per le Istituzioni statali quanto per quelle ecclesiali, costituisce uno straordinario esempio di rettitudine, specialmente per il suo lealismo alla legge e la fermezza contro le ingiustizie e le oppressioni, come pure per la sua parresia, con la quale richiamava anche i potenti, e a tutti insegnava i principi dell’autentica libertà e del servizio».

Di servizio civile e di politica il Papa ha parlato ancora sabato 15 ottobre ricevendo i partecipanti al convegno della Fondazione Centesimus Annus per il 20° anniversario dell’enciclica che dà loro il nome, appunto la «Centesimus annus» del beato Giovanni Paolo II (1920-2005):  un ventennale che, come Benedetto XVI ha ricordato, coincide con il trentennale dell’Esortazione apostolica «Familiaris consortio» dello stesso beato Pontefice. Molte cose sono cambiate ma, ha detto il Papa, con il «mutare delle condizioni esterne non è cambiato il patrimonio interno del Magistero sociale, che promuove sempre la persona umana e la famiglia, nel loro contesto di vita, anche dell’impresa».

Dopo avere parlato ai Prefetti dello Stato, il Pontefice ha ricordato sabato che prima dello Stato e dell'economia viene la famiglia. «Il Concilio Vaticano II ha parlato della famiglia in termini di Chiesa domestica, di "santuario intoccabile" dove la persona matura negli affetti, nella solidarietà, nella spiritualità. Anche l’economia con le sue leggi deve sempre considerare l’interesse e la salvaguardia di tale cellula primaria della società; la stessa parola "economia" nella sua origine etimologica contiene un richiamo all’importanza della famiglia: oikia e nomos, la legge della casa».
Di qui l'opportunità di celebrare anche il trentennale della «Familiaris consortio» dove il beato Giovanni Paolo II ha indicato per l’istituzione familiare quattro compiti:  «la formazione di una comunità di persone; il servizio alla vita; la partecipazione sociale e la partecipazione ecclesiale. Sono tutte funzioni alla cui base c’è l’amore, ed è a questo che educa e forma la famiglia».

Non si può separare quanto la dottrina sociale insegna della famiglia dal Magistero della Chiesa in tema di economia perché «è primariamente nella famiglia che si apprende come il giusto atteggiamento da vivere nell’ambito della società, anche nel mondo del lavoro, dell’economia, dell’impresa, deve essere guidato dalla caritas, nella logica della gratuità, della solidarietà e della responsabilità gli uni per gli altri». Così, «la famiglia, da mero oggetto, diventa soggetto attivo e capace di ricordare il "volto umano" che deve avere il mondo dell’economia».

Oggi dai percorsi virtuosi descritti dal Magistero si è passati a un circolo vizioso, che va dalla crisi economica alla crisi della famiglia e ritorno: «nella difficile situazione che stiamo vivendo, assistiamo, purtroppo, ad una crisi del lavoro e dell’economia che si accompagna ad una crisi della famiglia: i conflitti di coppia, quelli generazionali, quelli tra tempi della famiglia e per il lavoro, la crisi occupazionale, creano una complessa situazione di disagio che influenza lo stesso vivere sociale». Se ne uscirà solo con «una nuova sintesi armonica tra famiglia e lavoro, a cui la dottrina sociale della Chiesa può offrire il suo prezioso contributo. Nell’Enciclica Caritas in veritate ho voluto sottolineare come il modello familiare della logica dell’amore, della gratuità e del dono va esteso ad una dimensione universale. La giustizia commutativa - "dare per avere" - e quella distributiva - "dare per dovere" - non sono sufficienti nel vivere sociale. Perché vi sia vera giustizia è necessario aggiungere la gratuità e la solidarietà».

E dalla «Caritas in veritate» il Pontefice ha tratto un pensiero prezioso in tempi di «indignados» che urlano la propria indisponibilità a fare sacrifici, chiedendo tutto allo Stato:  «La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti, quindi non può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia... [...] il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco».

E, ha aggiunto il Papa, «se questo vale per la società in genere, assume rilievo ancora maggiore nella comunità ecclesiale. Anche nell’evangelizzazione, infatti, la famiglia ha un posto di rilievo, come ricordavo recentemente ad Ancona: essa non è semplicemente destinataria dell’azione pastorale, ma ne è protagonista, chiamata a prendere parte all’evangelizzazione in modo proprio e originale, mettendo al servizio della Chiesa stessa e della società il proprio essere e il proprio agire». Il Pontefice ha così gettato un ponto fra gli incontri con i prefetti e con gli studiosi di dottrina sociale e quelli di sabato pomeriggio e di domenica mattina, nella Messa, con i partecipanti al convegno promosso dal nuovo Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.
Senza falsi ottimismi, il Papa ha ricordato subito che la Chiesa «oggi può incontrare chiusura e rifiuto, modi di pensare e di vivere che sono lontani dalla ricerca di Dio e della verità. L’uomo contemporaneo è spesso confuso e non riesce a trovare risposta a tanti interrogativi che agitano la sua mente in riferimento al senso della vita e alle questioni che albergano nel profondo del suo cuore. L’uomo non può eludere queste domande che toccano il significato di sé e della realtà, non può vivere in una sola dimensione! Invece, non di rado, viene allontanato dalla ricerca dell’essenziale nella vita, mentre gli viene proposta una felicità effimera, che accontenta per un momento, ma lascia, ben presto, tristezza e insoddisfazione».

Ma il Papa ha invitato anche a non scoraggiarsi. Anzi, ha detto, «nonostante questa condizione dell’uomo contemporaneo, possiamo ancora affermare con certezza, come agli inizi del Cristianesimo, che la Parola di Dio continua a crescere e a diffondersi». E questo, ha soggiunto, per tre motivi.

Anzitutto, perché «la forza della Parola non dipende anzitutto dalla nostra azione, dai nostri mezzi, dal nostro "fare", ma da Dio, che nasconde la sua potenza sotto i segni della debolezza, che si rende presente nella brezza leggera del mattino (cfr 1Re 19,12), che si rivela sul legno della Croce».
In secondo luogo perché molte volte  «il seme della Parola, come narra la parabola evangelica del Seminatore, cade anche oggi ancora in un terreno buono che la accoglie e produce frutto (cfr Mt 13,3-9). [...] Nel mondo, anche se il male fa più rumore, continua ad esserci il terreno buono».
 Il terzo motivo nasce dalla constatazione che «l'annuncio del Vangelo è veramente giunto fino ai confini del mondo e, anche in mezzo a indifferenza, incomprensione e persecuzione, molti continuano anche oggi, con coraggio, ad aprire il cuore e la mente per accogliere l’invito di Cristo ad incontrarLo e diventare suoi discepoli. Non fanno rumore, ma sono come il granellino di senape che diventa albero, il lievito che fermenta la pasta, il chicco di grano che si spezza per dare origine alla spiga».Tutto questo, «se da una parte porta consolazione e speranza perché mostra l’incessante fermento missionario che anima la Chiesa, dall’altra deve riempire tutti di un rinnovato senso di responsabilità», soprattutto  «all’interno di quei Paesi di antica tradizione cristiana che sembrano diventati indifferenti, se non addirittura ostili alla Parola di Dio».

Ma non si può evangelizzare senza vita spirituale: «la parola dell’annuncio deve essere sempre immersa in un rapporto intenso con Lui, in un’intensa vita di preghiera. Il mondo di oggi ha bisogno di persone che parlino a Dio, per poter parlare di Dio. E dobbiamo anche ricordare sempre che Gesù non ha redento il mondo con belle parole o mezzi vistosi, ma con la sua sofferenza e la sua morte».
Le piccole vicende individuali - come il Papa ha mostrato commentando le letture della Messa di domenica - s'inseriscono in un grande disegno di Dio, che per essere compreso esige una teologia della storia. Il profeta Isaia «ci dice che Dio è uno, è unico; non ci sono altri dèi all’infuori del Signore, e anche il potente Ciro [II il Grande, 590-529 a.C.], imperatore dei persiani, fa parte di un disegno più grande, che solo Dio conosce e porta avanti. Questa Lettura ci dà il senso teologico della storia: i rivolgimenti epocali, il succedersi delle grandi potenze stanno sotto il supremo dominio di Dio; nessun potere terreno può mettersi al suo posto». «La teologia della storia - ha detto il Papa - è un aspetto importante, essenziale della nuova evangelizzazione, perché gli uomini del nostro tempo, dopo la nefasta stagione degli imperi totalitari del XX secolo, hanno bisogno di ritrovare uno sguardo complessivo sul mondo e sul tempo, uno sguardo veramente libero, pacifico, quello sguardo che il Concilio Vaticano II ha trasmesso nei suoi Documenti, e che i miei Predecessori, il Servo di Dio Paolo VI [1897-1978] e il Beato Giovanni Paolo II, hanno illustrato con il loro Magistero».

Dalla seconda lettura, l'inizio della Prima Lettera ai Tessalonicesi - «e già questo è molto suggestivo, perché si tratta della lettera più antica a noi pervenuta del più grande evangelizzatore di tutti i tempi, l’apostolo Paolo» - Benedetto XVI ha ricavato due insegnamenti: che «non si evangelizza in maniera isolata» e che «l’annuncio dev’essere sempre preceduto, accompagnato e seguito dalla preghiera».

L’evangelizzazione, infatti, «per essere efficace, ha bisogno della forza dello Spirito, che animi l’annuncio e infonda in chi lo porta quella "piena certezza" di cui parla l’Apostolo. Questo termine "certezza", "piena certezza", nell’originale greco, è pleroforìa: un vocabolo che non esprime tanto l’aspetto soggettivo, psicologico, quanto piuttosto la pienezza, la fedeltà, la completezza – in questo caso dell’annuncio di Cristo. Annuncio che, per essere compiuto e fedele, chiede di venire accompagnato da segni, da gesti, come la predicazione di Gesù. Parola, Spirito e certezza – così intesa – sono dunque inseparabili».

Il Vangelo della domenica era quello della famosa domanda rivolta al Signore sulla legittimità del tributo da pagare a Cesare, e contiene la risposta di Gesù: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). Gesù, spiega il Pontefice,  «risponde con un sorprendente realismo politico, collegato con il teocentrismo della tradizione profetica. Il tributo a Cesare va pagato, perché l’immagine sulla moneta è la sua; ma l’uomo, ogni uomo, porta in sé un’altra immagine, quella di Dio, e pertanto è a Lui, e a Lui solo, che ognuno è debitore della propria esistenza».

Prima di passare al senso politico della risposta dobbiamo, con i Padri della Chiesa, riflettere sul parallelo che Gesù propone tra l'immagine di Cesare impressa sulla moneta e l'immagine di Dio impressa nel cuore umano. Il Pontefice ha invitato a meditare su diversi commenti patristici. «Un Autore anonimo scrive: "L’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità … Pertanto da’ la tua ricchezza materiale a Cesare, ma serba per Dio l’innocenza unica della tua coscienza, dove Dio è contemplato … Cesare, infatti, ha richiesto la sua immagine su ogni moneta, ma Dio ha scelto l’uomo, che egli ha creato, per riflettere la sua gloria" (Anonimo, Opera incompleta su Matteo, Omelia 42). E Sant’Agostino [354-430] ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: "Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta - afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?" (En. in Ps., Salmo 94, 2). E ancora: "Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore" (Ivi, Salmo 4, 8)».

Dunque, «questa parola di Gesù è ricca di contenuto antropologico, e non la si può ridurre al solo ambito politico». Se lo si fa, si rischia di cadere in una cattiva retorica, criticando giustamente la confusione fondamentalista tra religione e politica ma dimenticando che la rivendicazione evangelica della regalità del Signore contiene anche in sé una condanna di ogni radicale separazione laicista che vorrebbe espellere dalla politica qualunque apertura alla religione. Come già aveva fatto nel suo libro «Gesù di Nazaret. Seconda parte», Benedetto XVI insiste che «la Chiesa, pertanto, non si limita a ricordare agli uomini la giusta distinzione tra la sfera di autorità di Cesare e quella di Dio, tra l’ambito politico e quello religioso. La missione della Chiesa, come quella di Cristo, è essenzialmente parlare di Dio, fare memoria della sua sovranità, richiamare a tutti, specialmente ai cristiani che hanno smarrito la propria identità, il diritto di Dio su ciò che gli appartiene, cioè la nostra vita».

Dalla nuova evangelizzazione e dall'annuncio dell'Anno della Fede - senza uscirne, perché la dottrina sociale, che non è solo socio-economica ma è prima di tutto socio-politica, è parte integrante dell'annuncio cristiano - si torna così al tema dell'incontro con i Prefetti. Neanche lo Stato e la politica sfuggono alla sovranità di Dio, e chi nega tematicamente il «diritto di Dio» finisce per violare anche i diritti dell'uomo.