E il "maschicidio" come lo possiamo chiamare?
Fine agosto 2015: una moglie stanca del marito lo ammazza a casa sua, poi simula il tentativo di rapina. E in questo caso, l'uxoricidio come viene spiegato? Non esiste, infatti, il termine "maschicidio". Se le parti di vittima e carnefice fossero state invertite, invece, si sarebbe parlato di "femminicidio".
Il delitto con rapina di Biancavilla nel catanese (fine agosto 2015) era in realtà un uxoricidio consumato dalla moglie dell’ammazzato.
Riassumo. Prima puntata: la signora alle cinque di mattina riesce a liberarsi dai legacci con cui è stata avvinta e trova il marito nell’altra stanza col cranio sfondato; racconta di due rapinatori a volto coperto che si sono introdotti nottetempo nella loro villetta, hanno costretto lei a legare il coniuge prima di legarla in altro ambiente; il coniuge, forse per spaventarli e indurli ad andarsene, ha detto loro di averli riconosciuti, al che quelli si sono spaventati davvero e l’hanno ammazzato con un legno preso dal caminetto, poi sono fuggiti con un magro bottino e la fede matrimoniale della vittima. Seconda, e ultima, puntata: i carabinieri, alla faccia delle barzellette che gli extraparlamentari di sinistra diffondevano sul loro conto negli anni Settanta, sono tutt’altro che sprovveduti e hanno subito notato incongruenze nella narrazione. Così, la signora, messa alle strette, ha finito per confessare di essersi inventato tutto. E’ stata lei a far fuori il marito, stufa di anni di vessazioni. Il movente è al vaglio degli inquirenti, anche perché la controparte, per ovvi motivi, non può fornire la sua versione.
Certo, in un Paese in cui il divorzio ormai lo passa la mutua, l’uxoricidio sembrava obsoleto, ma, sia come sia, mai dire mai: in tempi di recupero del buon tempo antico (cibo bio, rimedi naturali, mulini a vento, islam) ci sta anche questa. Ma lo scopo del presente articolo è un altro. Mi chiedo, infatti, come il linguaggio politicamente corretto affronterà il caso. Mi spiego: fosse stato lui ad accoppare lei si sarebbe trattato di femminicidio. Invece, cos’è, un maschicidio? Temo che il linguaggio politicamente corretto, come suo costume, sarà reticente in merito. Infatti, è bravissimo a creare sempre nuovi eufemismi, ma non altrettanto a districarsi nei viluppi in cui, così facendo, si avvolge da solo. Nel buon tempo antico (quello in cui regnava il buonsenso) in casi come quello illustrato si ricorreva al generico e onnicomprensivo «omicidio» e tutti erano contenti (si fa per dire). Ma il politicamente corretto ha decretato che l’omicidio di una donna è più grave, perciò ha coniato il termine «femminicidio» a cui subito il gregge maculato dei giornalisti si è adeguato, incaricandosi a titolo gratuito di diffonderlo e perciò inculcarlo. A prima vista (cioè, a vista superficiale), essendo le donne fisicamente più deboli degli uomini, parrebbe che, sì, ammazzarne una costituisce un’aggravante.
Ma ecco che, solo un giorno dopo, la cronaca butta un'altra trave fra le gambe del politicamente corretto. La Cassazione ha confermato l’ergastolo, inflitto in dicembre, per il delitto di Bruino nel torinese. Riassumo quest’altro caso. Un uomo, sposato e padre di figli, ha un’amante fissa. Però non intende usufruire dei vantaggi offerti dal divorzio-express; pare che a lui la situazione vada bene così com’è. Ma all’amante no. E questa escogita il modo di renderlo vedovo. Un modo che più premeditato non si può. Sentite: si fa prestare i soldi dagli ignari genitori di lui; con questo denaro assolda quelli che rapiscono la moglie dell’amante; la rapita viene portata a casa della mandante, la quale la imbottisce a forza di psicofarmaci fino ad avvelenarla e poi, per sicurezza, la soffoca con un sacchetto di plastica in testa; infine, seppellisce il cadavere nel giardino di casa. Il tutto condito di falsi biglietti d’addio e telefonate depistanti al marito della vittima. I giudici hanno parlato nella sentenza di «motivo abietto, turpe e ignobile che induce ogni persona di media moralità a un profondo senso di ripugnanza».
Ma, anche qui, non è di questo che voglio parlare. Il mio dilemma politicamente corretto è il seguente: si tratta di un indubbio caso di femminicidio, epperò perpetrato da una donna. Allora, come la mettiamo? Si conia un (ulteriore) termine apposito oppure lasciamo perdere? L’esperienza insegna che, di fronte alla «contraddizion che nol consente» (copyright Dante), i politicamente corretti si voltano dall’altra parte. E lasciano i giornalisti in braghe di tela. E pensare che l’Ordine dei giornalisti obbliga i suoi iscritti a corsi di «formazione» pressoché continui. Forse ignaro del fatto che le centrali dove si creano gli slogan stanno a Manhattan.