Duterte, quando i cattolici votano un loro nemico
Duterte spara a zero contro la Chiesa, provoca un'ondata di uccisioni nel nome della lotta alla criminalità, promette politiche di denatalità. Eppure i cattolici filippini lo votano comunque, senza ascoltare gli avvertimenti dei vescovi. Succede nelle Filippine, ma è sintomo di un disagio morale che anche noi viviamo.
Filippine, riemerge lo strano e tragico caso di Rodrigo Duterte. Strano perché è un presidente dichiaratamente ostile alla gerarchia della Chiesa votato a gran maggioranza da una popolazione che è all’80% cattolica. Tragico, perché ha mantenuto le sue promesse: in sette settimane, secondo un rapporto della polizia, sono state uccise 1916 persone, accusate di spacciare droga, meno della metà delle quali per mano delle forze dell’ordine. E Duterte, fra un insulto e l’altro ai vescovi, promette di andare contro la Chiesa, anche promuovendo politiche di pianificazione familiare.
Il rapporto è stato esposto da Ronald de la Rosa, capo della polizia, all’aula del Senato delle Filippine. I dati che cita sono preoccupanti. Nel corso della campagna di repressione dello spaccio di droga, sono 756 i veri o presunti trafficanti uccisi dalle forze dell’ordine perché resistevano all’arresto. Ma ci sono anche più di mille uccisioni, avvenute nel corso della campagna, su cui la polizia ha aperto un’inchiesta. Duterte ha ripristinato l’ordine a Davao, la città che ha amministrato per un ventennio, anche ricorrendo a gruppi di vigilantes, che ben presto sono diventati squadroni della morte. Ora che è a capo di tutto il paese, si sta rischiando che il “modello” venga universalizzato.
La Chiesa cattolica delle Filippine non si è mai tirata indietro durante e dopo la campagna elettorale. Il presidente della Conferenza Episcopale, monsignor Socrates Villegas, aveva messo in guardia l’opinione pubblica. “La corruzione è un demone dai mille volti. Uccidere è corruzione. Uccidere è un crimine e un peccato, che lo faccia un criminale o un poliziotto”. E Duterte è stato eletto promettendo di uccidere, almeno “100mila criminali”. E non solo: ha apertamente insultato Papa Francesco (“figlio di p… tornatene a casa!”), vantato le sue relazioni extraconiugali (“grazie al Viagra”), scherzato sullo stupro e l’uccisione di una missionaria (“avrei voluto essere il primo della fila” fra gli stupratori, ndr), promesso politiche di pianificazione familiare, regolarmente applicate a Davao (un premio in denaro per chi si fosse sottoposto alla vasectomia). E il popolo, all’80% cattolico, invece di ascoltare i vescovi, ha votato Duterte. Il quale non “delude”: oltre alla campagna di uccisioni indiscriminate, sta anche promuovendo la campagna del “massimo tre figli”, in stile cinese. Chi disobbedisce “dovrebbe essere castrato”, come ha dichiarato la settimana scorsa.
Perché i cattolici hanno votato Duterte? Elettori presi a campione nelle interviste pre e post-elettorali rivelano che tutti danno la stessa risposta: perché vuole redistribuire i soldi ai poveri. E perché ha amministrato bene Davao. Leggasi: col pugno di ferro. Dunque: il primo scopo desiderato è la redistribuzione delle ricchezze, in un paese in via di sviluppo in cui il divario fra ricchi e poveri è ancora molto forte. Poi: l’ordine pubblico, la cui assenza colpisce soprattutto i ceti più poveri e più esposti al crimine e alla droga. Ed è in questo clima che alimenta l’odio contro le élite corrotte, poche famiglie che controllano tutta la ricchezza del paese, “trapos”, come le chiamano spregiativamente nelle Filippine. E Duterte è stato molto abile a convogliare questo odio anche contro i vescovi. Subito dopo le elezioni, in maggio, li ha pesantemente insultati, accusandoli di “ipocrisia”. Alimenta l’immagine di un’élite religiosa che “chiede favori anche a me”, ricca, privilegiata e ipocrita (senza far nomi, accusa i vescovi di aver avuto relazioni sessuali segrete). Dice che la Chiesa vuole tutti poveri e propone, per ridurre la povertà, di imporre la riduzione delle nascite. Se i pastori ricordano i principi, anche quelli non negoziabili come la difesa della vita, il popolo risponde “i principi non si mangiano”.
Si parla delle Filippine, un paese dall’altra parte del mondo, ma si pensa a una crisi di valori universale. Quel che viene genericamente chiamato “populismo” altro non è che la nuova declinazione dell’invidia. Predica la giustizia sociale, ma alle soluzioni concrete preferisce l'istigazione all'odio contro chi è additato come parte della casta. Chi vuole distruggere la Chiesa e il suo insegnamento, non ha che da far leva su questo vizio. Esattamente come fecero i socialisti nell’Ottocento e nel Novecento in Europa, anche Duterte ritiene che la Chiesa sia privilegio dei potenti e oppio per i poveri, che occorra liberarsi dai suoi valori morali per emancipare i più sfortunati. Se la Chiesa perde terreno, anche in un paese a gran maggioranza cattolico, è perché evidentemente non è riuscita a trasmettere l’inviolabilità dei principi non negoziabili, i cui effetti si misurano nel lungo periodo e dunque devono essere spiegati fin dalla prima istruzione. Ma quanta parte di responsabilità ha lo stesso mondo cattolico? Questa invidia sociale è la stessa su cui fa leva la Teologia della Liberazione in America Latina. E molti dei suoi insegnamenti sono penetrati nel resto del mondo cattolico, lentamente, silenziosamente, ma in modo pervasivo. E’ opinione ormai diffusa che i principi non negoziabili, a partire dalla difesa della vita, siano astratti e negoziabili, ma che sia molto più importante che la Chiesa paghi l’Imu e doni tutti i suoi soldi ai poveri. Quante volte abbiamo sentito questi discorsi, anche da cattolici? Rinunciando ai principi, però, tutto è possibile. Se la difesa della vita è in discussione, se l’unica priorità è quella di dare soldi ai poveri, ogni Duterte sarà possibile, ovunque.