Drammaturgo e poeta, i talenti meno noti di Wojtyla
Gli anni Trenta furono un periodo esaltante per l’impegno teatrale di Karol Wojtyla, che fin dalla sua giovinezza fu affascinato dalla parola e dal suo contenuto. La sua poetica passa per san Giovanni della Croce. La poesia va di pari passo con il silenzio, dunque la contemplazione. Come disse Reale, il santo polacco fu prima poeta e drammaturgo e poi filosofo e teologo. Chiaro il filo conduttore: l’uomo, Dio, perciò l’Amore.
Prima di diventare vescovo di Cracovia e cardinale di Santa Romana Chiesa, Karol Wojtyla (1920-2005) era - per tutti - semplicemente Lolek. Questo, l’affettuoso “soprannome” coniato dai suoi compagni di università, nella Cracovia degli anni Trenta. Immergiamoci, allora, in uno degli aspetti meno conosciuti ma assai significativi della sua esperienza umana e culturale che influenzò - non poco - la sfera spirituale e, successivamente, il pontificato di Giovanni Paolo II.
Era il 1934. Periodo esaltante per il suo impegno teatrale che proseguì anche durante l’occupazione tedesca del 1939. Erano anni di grande fermento intellettuale per la Polonia. Wojtyla, all’epoca, frequentava i circoli culturali universitari, fucina di compagnie teatrali del cosiddetto “teatro rapsodico”, o “teatro della parola”. La parola e Wojtyla: questo è uno dei primi elementi che troviamo nel passato di poeta-drammaturgo del giovane Karol. È la parola e il suo suono ad affascinare, fin da subito, il giovane studente polacco. Ma non solo: ne è fondamentale il contenuto. Con il teatro, Wojtyla sperimenta quanto possano “avere peso” le parole per convogliare un messaggio, un’emozione, un sentimento. In fondo, diceva il regista francese Louis Jouvet ai suoi attori: “Per sentire bene le battute, dovete scandirle bene”.
E il pensiero così corre alle tante omelie del pontefice Giovanni Paolo II: il tono chiaro, rotondo, corposo, riusciva a far arrivare il messaggio - in questo caso il Messaggio, con la “m” maiuscola - a un gran numero di persone, con semplicità. E gli ascoltatori divenivano - grazie proprio a quest’arte oratoria - un tutt’uno non solo con l’uomo che le pronunciava, ma con il messaggio stesso: forza delle parole che avevano come oggetto la Parola.
La poetica di Karol Wojtyla passa per san Giovanni della Croce. La poesia va di pari passo con il silenzio e, quindi, con la contemplazione, divenendo così un rapporto mistico con la vita stessa. Il silenzio interiore desta la meditazione, e poi lo scritto. Testimonianza assai valida di questo processo, la poesia “Rive colme di silenzio” (del 1946, Wojtyla aveva 26 anni), in cui l’autore ci dice: “Lontane rive di silenzio cominciano appena al di là della soglia./ Non le sorvolerai come un uccello./ Devi fermarti a guardare sempre più in profondità/ finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo”.
Che la soglia di cui parla Wojtyla sia quella del monastero dei Carmelitani (che si trovava vicino alla casa natale) è abbastanza plausibile, vista la sua intenzione originale di entrarne a far parte. Questa, tra l’altro, è l’interpretazione a cui la critica, maggiormente, fa riferimento. Ma una più accurata lettura ci spinge a pensare che quella soglia (visto l’animo filosofico dell’autore) vada cercata piuttosto nel suo “io”, nella “soglia” del proprio animo: Wojtyla contempla il Tutto, cercando di uscire da sé stesso, e - allo stesso tempo - riesce, grazie alla poesia, ad entrare sempre più nello scandaglio del proprio io. San Giovanni della Croce, nella sua Salita del Monte Carmelo, scriveva: “Per giungere dove sei, devi passare per dove non sei. Per giungere a possedere tutto, non volere possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non volere che essere niente”.
Altro punto che rimane abbastanza poco esplorato dalla critica è il Wojtyla drammaturgo. Per quella forza intrinseca di spiegare, di rivelare agli uomini l’uomo, attraverso immagini che divengono concetti, la drammaturgia diviene per Wojtyla il “naturale habitat” per convogliare le sue intuizioni sulle profondità dell’umanità. Il filosofo Giovanni Reale dirà infatti: “Wojtyla ha iniziato con l’essere poeta e drammaturgo, poi ha proseguito il suo cammino come filosofo e teologo. Wojtyla riunisce dunque in sé le tre grandi componenti del pensiero, e perciò costituisce quella figura emblematica di un uomo che in vari modi percorre tutte queste vie per raggiungere la Verità”.
Il teatro è composto da un immaginario reale che nella finzione trova la sua Verità. Ad esempio, nella drammaturgia di Wojtyla, troviamo il personaggio/pittore Adamo (nell’opera teatrale “Fratello del nostro Dio” del 1944) che proprio dipingendo una tela - metafora dell’arte, in generale - riesce a penetrare meglio in sé stesso. E se ci riesce è grazie al volto dipinto di Cristo. Adamo dirà: “Tu per me devi assumere questa forma. La forma che abbraccio con l’anima, e queste macchie di colore sulla tela - e Tu in tanti uomini - una cosa sola. Eppure così ti perpetuerò in tanti, tanti uomini”.
Tutto il percorso artistico-spirituale di Wojtyla risulterebbe però incompleto, se non si facesse riferimento al tema che più volte ha fatto da “sottotesto” alle sue opere. Tema, tra l’altro, che ha segnato profondamente l’intero suo pontificato: l’Amore. E, in particolar modo, l’amore sponsale. Basterebbe ricordare le sue catechesi per i fidanzati degli anni Ottanta. Accennando a questo tema, non si può non pensare alla sua opera drammaturgica “La bottega dell’orefice”, incentrata sull’amore coniugale che diviene anche “emblema” di un amore ancora più vasto: l’autore polacco farà dire al personaggio del Coro, a un certo punto della narrazione scenica, che “l’Uomo è Amore”.
In fondo, è stata proprio questa “consapevolezza cristiana” della natura umana a essere stata, per Karol Wojtyla, la “molla” per la sua ricerca spirituale e poetica che - successivamente - lo ha condotto a Dio. L’incontro con l’uomo è stato - per Wojtyla - l’incontro con Dio, e di conseguenza con l’Amore. Scriverà, infatti, Wojtyla nel componimento “Canto del Dio nascosto” (del 1946): “L’Amore mi ha spiegato ogni cosa, / l’Amore ha risolto tutto per me – / perciò ammiro questo Amore dovunque Esso si trovi”.