Dramma Rohingya, non sparate su Aung San Suu Kyi
Da tutto il mondo appelli per salvare i Rohingya. E' soprattutto forte la delusione per Aung San Suu Kyi, icona della non-violenza attualmente al vertice del Myanmar. Ma le cose non stanno come ce le raccontano. La parola di un missionario.
La premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, ieri ha lanciato un appello per la fine delle violenze sui Rohingya nel Myanmar. Il suo paese ospita 370mila rifugiati e ha pregato il vicino di riaccoglierli, garantendo loro la sicurezza e un ritorno a casa. Il governo del Myanmar, però, respinge l’accusa di pulizia etnica. Rohingya, chi sono costoro? Il nome di questa popolazione, dalla fine di agosto, è sulla bocca di tutti i media, del Papa e dei premi Nobel per la Pace. I Rohingya sono una minoranza etnica del Myanmar (Birmania), diffusa nel Rakhine, regione costiera vicino al confine con il musulmano Bangladesh. Un milione o poco più, di cui un terzo profughi.
Il 25 agosto una sigla armata dei Rohingya, la Arsa (esercito di salvezza dei Rohingya) ha compiuto una serie di attentati contro posti della polizia birmana. L’esercito ha risposto con metodi brutali, occupando il Rakhine. Secondo fonti governative, le forze armate si stanno limitando a cercare e arrestare i terroristi, anche se ammettono la difficoltà di distinguere fra terroristi e civili in una zona di guerriglia. Secondo le Ong e fonti giornalistiche indipendenti (fra cui la Reuters), l’esercito starebbe cannoneggiando i civili in fuga verso il Bangladesh. Altre accuse riguardano la distruzione di interi villaggi, stupri sulle donne, violenze sui civili in genere e la disseminazione di nuove mine anti-uomo, che già sono ancora nascoste in gran numero lungo il confine fra Myanmar e Bangladesh. La repressione ha provocato un enorme scalpore in tutto il mondo. Non è l’unica area violenta del pianeta, certamente. Ma al governo del Myanmar c’è Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, icona della non-violenza. A favore dei Rohingya si è espresso anche Papa Francesco, all’inizio della crisi, nel suo Angelus del 27 agosto: “Sono arrivate tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa dei nostri fratelli Rohingya – ha detto il pontefice, che a novembre si recherà nel Myanmar - Vorrei esprimere loro tutta la mia vicinanza. Tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà perché li aiutino e perché tutti i loro diritti siano rispettati”.
Tuttavia, la questione Rohingya non è chiara come potrebbe apparire a prima vista. Di fronte alle accuse della comunità internazionale e di altre figure simbolo della non-violenza, come la Nobel per la Pace Malala Yousafszai, Aung San Suu Kyi risponde sempre con gli stessi argomenti: attenti all'informazione faziosa sul Myanmar, non c'è alcuna pulizia etnica in corso. Difficile che si tratti di sindrome di Stoccolma, difficile che sia solo di una difesa acritica dell'operato dei militari da parte di una ex dissidente, con 15 anni di arresti domiciliari alle spalle e un tentativo di attentato. Può darsi che la "Signora" indichi un vero problema nell'informazione. Ne abbiamo parlato con padre Francesco Rapacioli, missionario e buon conoscitore dell’area. “Prima di tutto, nel Myanmar l’informazione è molto carente. Dopo l’Angelus del Papa, i preti birmani con cui ho parlato non ne sapevano nulla. A Yangon, ho fatto presente questa critica del Papa e di altri esponenti della politica e della cultura internazionale nei confronti di Aung San Suu Kyi. E la risposta (la riporto come mi è stata data): la questione Rohingya non può essere risolta da Aung San Suu Kyi nel breve periodo, perché si è incancrenita da settant’anni, risale addirittura al tempo della decolonizzazione britannica. Il primo governo birmano indipendente si era già trovato ad avere a che fare con una minoranza musulmana molto difficilmente integrabile con la maggioranza buddista birmana. Come tutti i paesi del Sudest asiatico, la minoranza musulmana rivendica la sua diversità e crea un problema di nazionalità. Così, almeno viene raccontata la storia nel Myanmar”.
Se il problema risale ad allora e dunque non è facilmente risolvibile, però oggi? “Le notizie vengono diffuse soprattutto da Ong e da osservatori europei. La loro visione del problema è unilaterale: c’è una repressione in atto, violenze contro i civili di una minoranza da parte del governo. Le grandi aspettative nei confronti di Aung San Suu Kyi stanno svanendo. Parlando con i sacerdoti, però, la leader birmana appare sotto una luce diversa. Dopo più di un decennio di arresti domiciliari, infatti, si ritrova a gestire un paese che era già in guerra. E quello dei Rohingya non è neppure l’unico problema del Myanmar. Non sono affatto finite le violenze contro le minoranze tribali. La violenza è diffusa e generalizzata. Aung San Suu Kyi sta provando a metter fine a tutto questo, ma non lo può fare dalla sera alla mattina”.
E i preti locali? “I preti locali dicono che sono soprattutto i Rohingya ad essere violenti con i civili birmani. Alcuni di loro sono anche terroristi internazionali. Ora: dire che sono tutti terroristi sarebbe improprio. Ma che ci possano essere infiltrazioni del terrorismo internazionale anche fra i Rohingya è molto probabile. Non dimentichiamo che il vicino Bangladesh, che era considerato da padre Gheddo come il paese musulmano più moderato al mondo, negli ultimi ha registrato un’escalation di jihadismo. La strage degli italiani a Dacca è l’esempio più eclatante del nuovo corso. Che ci sia un network di Al Qaeda e dell’Isis (in competizione fra loro) nella regione è ormai un fatto noto”.
Come hanno reagito alle parole del Papa i cattolici del Myanmar? “Il commento principale è che sia mal informato, incline ad ascoltare più la campana delle Ong che non quella degli stessi sacerdoti cattolici. Inoltre c’è anche un po’ di delusione, perché il Papa ha nominato i Rohingya, musulmani, perseguitati. E va benissimo. Ma non ha accennato alle etnie cristiane perseguitate, le popolazioni tribali che forniscono al paese la maggioranza dei sacerdoti cattolici. Quindi bene condannare la persecuzione dei Rohingya, ma il fatto che si parli solo di loro, in tutto il mondo, è una cosa che interroga e anche preoccupa la Chiesa birmana”.