Dopo 70 anni di Repubblica, la Costituzione mostra le rughe
Il 2 giugno 1946 gli italiani votarono per la Repubblica ed elessero i costituenti, in maggioranza democristiani, socialisti e comunisti, che scrissero la Costituzione "più bella del mondo". Ma oggi il tessuto sociale è completamente diverso, le idee sull'economia e le lacune sui diritti individuali, congelate in quella Carta, sono ormai anacronismi.
La nostra Repubblica compie oggi 70 anni. Il 2 giugno 1946 gli italiani furono chiamati alle urne per pronunciarsi sulla forma di Stato e, tra Monarchia e Repubblica, scelsero quest’ultima. Furono 12.717.923, pari al 54,3%, i cittadini italiani che si dichiararono favorevoli alla Repubblica, e 10.719.284, pari al 45,7%, gli italiani che si dichiararono favorevoli alla Monarchia. Inoltre, gli italiani quel giorno elessero i 556 Costituenti, cioè i componenti di quell’assemblea che avrebbe dovuto redigere la Costituzione.
Vanno rintracciati negli esiti di quelle votazioni le radici dell’attuale situazione italiana, contraddistinta da luci e ombre, da performance e inefficienze, tra slanci identitari e omologazioni egualitaristiche, tra libertà individuali e retaggi di collettivismo statalista difficili da stroncare. La stragrande maggioranza di quei 556 costituenti, infatti, apparteneva alle tre maggiori tradizioni culturali italiane: quella cattolico-democristiana (207 costituenti), quella socialista (115 costituenti Psiup, cioè del Partito socialista italiano di unità proletaria), quella comunista (104 costituenti). La suddivisione dei rimanenti 130 seggi risultò polverizzata tra almeno altri dieci partiti, solo in parte sensibili ai valori liberali. Ne derivò che la componente liberaldemocratica risultò largamente minoritaria in seno all’Assemblea Costituente.
Tali rapporti di forza hanno finito per produrre una Costituzione attentissima ai valori della solidarietà, dell’interclassismo e dell’uguaglianza, ma lacunosa sul fronte del riconoscimento dei diritti individuali, in primo luogo la proprietà, non a caso confinata nella seconda parte della Carta, e dunque assente dalla prima parte, quella dei Principi fondamentali, considerati tendenzialmente immutabili e resistenti a ogni ipotetico tentativo di stravolgimento.
Nel 1946 l’Italia era ancora scossa dal ventennio fascista, risultava dominata da estese sacche di povertà e disuguaglianze sociali, ancora traumatizzata dai disastri bellici, e appariva anzitutto bisognosa di ricostruzione morale e materiale. La redistribuzione del reddito e delle proprietà, soprattutto di quelle agricole, rappresentò una delle prime sfide della Repubblica italiana. Con provvedimenti come la riforma agraria, i primi governi repubblicani riuscirono a sanare le disuguaglianze più marcate e a restituire speranza ad alcune categorie di “ultimi”.
Sul fronte della natura dello Stato e dell’equilibrio tra poteri si scelse la via della Repubblica parlamentare, in grado di evitare l’uomo solo al comando, rischio insito in alcuni sistemi presidenziali, e capace di dare rappresentanza parlamentare a tutte le tradizioni culturali del Paese.
Oggi, a distanza di 70 anni, la cosiddetta “Costituzione più bella del mondo” sembra mostrare le rughe, soprattutto in alcuni punti, e appare bisognosa di un robusto aggiornamento. Se gli attuali governanti, ma anche coloro che li hanno preceduti, si sono concentrati soprattutto sulla terza parte della Carta, quella dedicata al funzionamento degli organi costituzionali, oggi sono in molti a evidenziare la necessità di rivedere anche alcuni articoli della cosiddetta “democrazia economica”, cioè una serie di articoli inseriti nella seconda parte della Costituzione, quella dedicata ai diritti e ai doveri dei singoli e delle cosiddette formazioni sociali, nelle quali, secondo l’art.2, si svolge la personalità dell’individuo.
Appaiono sicuramente meritori gli sforzi compiuti negli ultimi due decenni sul terreno del superamento del bicameralismo perfetto, che duplica i tempi e i costi di approvazione dei provvedimenti di legge, costringe il governo ad un uso eccessivo della decretazione d’urgenza e rallenta i processi decisionali, con inevitabili riflessi sulla competitività del sistema Paese. E’ ragionevole, anzi opportuno, considerare superati alcuni meccanismi di funzionamento del potere parlamentare, di quello esecutivo e di quello giudiziario e intervenire sull’architettura dello Stato per semplificarla e snellirne le procedure.
Tuttavia, non meno urgente appare l’aggiornamento di quella parte di Costituzione incentrata sui diritti di libertà in campo economico, concepiti in un’epoca in cui la struttura dell’economia italiana era prevalentemente agricola e pre-industriale. Che senso ha mantenere oggi in vita articoli sull’espropriazione di beni privati o sull’utilità sociale dell’iniziativa economica? Nell’era iper-tecnologica che stiamo vivendo, i cosiddetti “asset intangible”, i fattori immateriali, il capitale umano, la proprietà intellettuale sono elementi sempre più sfuggenti e non catalogabili secondo gli schemi e le categorie del passato. L’attuale orizzontalità dei processi produttivi e organizzativi, imperniati sulla condivisione delle conoscenze, cozza in maniera stridente con l’impostazione che i Costituenti pensarono di dare a quegli articoli. Senza contare la mancata attuazione dell’articolo 40 sull’organizzazione sindacale, con la prolungata anarchia delle principali sigle sindacali nel nostro Paese, che ha, di fatto, generato permanente promiscuità tra politica e sindacati.
Oggi il tessuto sociale del nostro Paese è profondamente diverso da settant’anni fa. La stabilità democratica assicurata dalla Costituzione l’abbiamo pagata a caro prezzo in termini di competitività dell’Italia, di meritocrazia, di efficienza, e anche di ancoraggio ai valori cristiani. L’egualitarismo statalista ha penalizzato molte eccellenze e ha tarpato le ali alla crescita economica. Di pari passo con le modifiche alla terza parte della Costituzione, sarebbe oggi opportuno concentrarsi anche sulla seconda parte, introducendo quei cambiamenti che sono già nei fatti e che potrebbero stimolare le nuove generazioni a sentirsi parte viva dell’auspicabile rinascita del nostro Paese.