Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
8 MARZO

Donna, solo il cristianesimo ti ama

Una delle grandi novità del cristianesimo è la concezione della donna, che per la prima volta diventa creatura di Dio, al pari dell'uomo e a lui complementare. E il matrimonio monogamico e indissolubile è una grande conquista che dà piena dignità alla donna.

Cultura 08_03_2014
Vergine e Madre

In occasione dell'8 marzo, festa della donna, pubblichiamo ampi stralci del capitolo "Il cristianesimo e le donne", tratto dal libro di Francesco Agnoli «Indagine sul Cristianesimo» (La Fontana di Siloe, euro 16,50) di cui esce in questi giorni la terza edizione.

Una delle grandi novità storicamente rilevabili apportate dal cristianesimo riguarda la concezione della donna. Sovente secondaria e marginale, almeno in linea di diritto, nel mondo greco; sotto perpetua tutela dell’uomo, padre e marito, nel mondo romano; ostaggio della forza maschile, presso i popoli germanici; passibile di ripudio e giuridicamente inferiore nel mondo ebraico; vittima di infiniti abusi e violenze, compreso l’infanticidio, in Cina e India; forma inferiore di reincarnazione nell’induismo tradizionale; sottoposta alla poligamia, umiliante affermazione della sua inferiorità, nel mondo islamico e animista; vittima presso diverse culture di vere e proprie mutilazioni fisiche; sottoposta al ripudio del maschio, in tutte le culture antiche, la donna diventa col cristianesimo creatura di Dio, al pari dell’uomo.  

Scrive l’amico filosofo Tommaso Pevarello: 
“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse” (Genesi, 1, 27). Dio, dopo aver creato il mondo visibile, decide di popolarlo con l’essere più degno: l’uomo.

Il termine “uomo” ha un significato collettivo, cioè si intende ogni essere umano, il quale si divide nei generi femminile e maschile. Questo dato ci deve colpire: la differenza maschile e femminile non viene data in opposizione, bensì in armonia con il fatto che entrambi sono parte dell’unità dell’essere umano. Quindi l’essere vivente si dà in definitiva come “unità dei due”: l’uguaglianza sta nell’essere entrambi “esseri umani”, la differenza sta nel genere maschile e femminile, dato che, come scrisse Edith Stein: “Non solo il corpo è strutturato in maniera diversa, non solo sono differenti alcune funzioni fisiologiche, ma tutta la vita del corpo è diversa; di conseguenza anche il rapporto tra anima e corpo è differente”. Se procediamo nel testo biblico, la creazione dell’essere umano si accompagna al comandamento di Dio: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela”.

Dio affida solo all’uomo e alla donna il “dominio” della terra, dato che solo loro possiedono quella razionalità, quel Logos, frutto della somiglianza con Dio. Ma c’è molto di più: Dio indica loro la capacità di generare, e dunque la sessualità, come un valore da assumere in modo responsabile davanti a Dio, partecipando al progetto creativo divino e permettendone, in un certo senso, la continuazione. 

“Allora il Signore plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”; così è descritta la nascita di Adamo (ricordo che Adamo deriva da “adam”, che significa l’uomo in generale). Questi versi sono importanti non tanto per il fatto che l’uomo appartiene alla terra, dato che questa caratteristica è propria anche di molti animali, bensì la peculiarità sta nel fatto che egli riceve la vita da Dio con un “soffio”: anche se l’uomo con la sua corporeità è partecipe della materia, ha l’anima/spirito che non proviene dalla terra ma da Dio e che gli fa acquisire il gradino più alto all’interno della creazione.

“Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”.
Emerge qui un dato significativo: l’uomo, pur in mezzo agli altri animali, si sente solo e Dio interviene per fargli superare quella solitudine che “non era cosa buona” e per farlo deve servirsi di un qualcosa che gli sia simile; ritorna il concetto fondamentale dell’antropologia cristiana che vede l’essere umano come “unità dei due”. L’uomo, così come la donna, non esistono “da soli” ma acquisiscono un senso ed una pienezza solo se si pongono “in relazione”… Così termina la parte iniziale del Genesi sulla formazione dell’uomo e della donna. 

Si può concludere, quindi, che l’uomo e la donna sono le uniche creature del mondo visibile che Dio ha voluto per se stesso, che ha voluto rendere “persone”, la cui realizzazione o meglio, il cui “ritrovarsi”, passa attraverso l’esperienza dell’amore e il dono sincero di sé.

Per quanto riguarda la donna, il suo essere dono per gli altri, necessita di due esperienze a lei peculiari su cui si giocherà la propria realizzazione, la propria vocazione: la verginità e la maternità.

Queste dimensioni non possono trovare modello più perfetto della “donna di Nazareth”: Maria, ‘vergine e madre’ ”. Una donna che diviene degna di portare nel suo grembo Dio stesso! Quale importanza più grande poteva riconoscere il cristianesimo al genere femminile! 
Prosegue Pevarello: “L’atteggiamento di Gesù con le donne è molto semplice e forse proprio per questo, in quei tempi, rivoluzionario. “Si meravigliavano che stesse a discorrere con una donna”, e a meravigliarsi non vi erano solo gli scribi, ma gli stessi apostoli! Egli, davanti agli ebrei che rivendicavano il “diritto maschile” di ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo, li ammonì di ritornare al “principio”, quando questo non era consentito, quando cioè l’uomo e la donna ancora si amavano con purezza, essendo ad immagine e somiglianza di Dio.

In questo caso Gesù interviene per spazzare via una “tradizione” che si era affermata ma che era contraria alla volontà divina, che in origine non voleva che il maschio dominasse, ma che stabiliva un’uguaglianza tra i due in una sola carne. 

Scorrendo le altre parti del Vangelo si incontrano numerose donne: l’emorroissa che toccando il mantello di Gesù, nonostante sia in mezzo alla folla, è da lui “sentita” e lodata per la grande fede: “La tua fede ti ha salvata”; la figlia di Giairo, che Gesù fa tornare in vita; la vedova di Nain, cui fa ritornare in vita l’unico figlio e cui rivolge l’affettuoso invito: “Non piangere”. E gli esempi potrebbero continuare, con la Cananea o con il racconto dell’obolo della vedova, in cui Egli la difende contro il sistema giuridico del tempo. Fatto sta che sempre il Figlio di Dio ha per la donna rispetto e compassione.

Pensiamo ancora a quelle categorie che erano pubblicamente disprezzate dal sentire comune del tempo: prostitute, adultere, peccatrici. Anche a loro Gesù porta la sua parola d’amore in grado di cambiare la vita. Alla Samaritana dice: “Infatti hai avuto cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito”, dimostrando così di sapere i segreti della sua vita e in questo modo ella lo riconosce come il Messia e va a testimoniarlo ai suoi compaesani. 
Alla pubblica peccatrice che gli lava con olio i piedi, facendo scandalizzare il padrone di casa fariseo, Gesù dice: “Le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato”.

Infine il famosissimo episodio della donna sorpresa in adulterio e portata da Gesù per metterlo alla prova: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei”. Questa risposta è così splendida che sorprende tutti, provocando la consapevolezza dei loro peccati, dato che il peccato della donna era anche la conferma delle loro trasgressioni; è così che alla fine rimangono solo Gesù e la donna, la quale viene invitata a non peccare più. 

Marta, sorella di Lazzaro, vede il fratello risorgere dopo aver professato la fede in Gesù: “Sì, o Signore, credo che tu sei il Cristo, Figlio di Dio”.
Saranno ancora le donne ad accompagnare Gesù verso il Golgota e che gli faranno dire: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me”, dimostrando ancora una volta un modo di rapportarsi con il genere femminile che costituisce un’assoluta novità. Ma saranno sempre donne le prime testimoni della Sua resurrezione, con Maria di Magdala incaricata di andare ad avvertire gli apostoli dell’incredibile avvenimento”.


IL MATRIMONIO MONOGAMICO E INDISSOLUBILE

Quali saranno le conseguenze, storicamente parlando, di questa nuova concezione? 
Basterebbe indicarne tre. La prima: il cristianesimo è l’unica religione della storia in cui il rito di iniziazione e quindi  di ammissione alla comunità, cioè il battesimo, è uguale per uomini e donne. La seconda: il cristianesimo, condannando l’eposizione dei bambini e l’infanticidio, limita drasticamente una pratica molto diffusa in tutto il mondo, dall’antica Roma alla Cina e all’India di oggi, e avente più spesso come vittime le bambine femmine (vedi capitolo successivo). 
La terza: il matrimonio cristiano è imprescindibilmente monogamico e indissolubile. Esso quindi sottintende anzitutto la pari dignità degli sposi: non è lecito ad un uomo avere più mogli, nel suo gineceo, o nel suo harem! Non è lecito, in virtù della sua maggior forza, ripudiare la moglie, come un oggetto, né sostituirla con delle schiave! E neppure, ovviamente, il contrario. 

S.Agostino, nell’incipit de La dignità del matrimonio, scrive: “Ciascun uomo è parte del genere umano; la sua natura è qualcosa di sociale e anche la forza dell'amicizia è un grande bene che egli possiede come innato. Per questa ragione Dio volle dare origine a tutti gli uomini da un unico individuo, in modo che nella loro società fossero stretti non solo dall'appartenenza al medesimo genere, ma anche dal vincolo della parentela. Pertanto il primo naturale legame della società umana è quello fra uomo e donna. E Dio non produsse neppure ciascuno dei due separatamente, congiungendoli poi come stranieri, ma creò l'una dall'altro, e il fianco dell'uomo, da cui la donna fu estratta e formata, sta ad indicare la forza della loro congiunzione . Fianco a fianco infatti si uniscono coloro che camminano insieme e che insieme guardano alla stessa meta…”.

Tutta la storia della Chiesa, per quanto riguarda la morale coniugale, tende a salvare proprio la pari dignità tra uomo e donna: vietando ovviamente ogni diritto di vita o di morte dell’uomo sulla donna; tutelando il più possibile il libero consenso degli sposi; innalzando l’età del matrimonio della donna (che per i romani erano sovente i 12 anni); togliendo ai genitori la possibilità di violare la libertà dei figli, e in particolare ai padri di decidere il marito della figlia; combattendo l’abitudine dei matrimoni combinati, soprattutto tra i nobili; contrastando in ogni modo i matrimoni forzati, in cui solitamente era la donna a fungere da vittima; impedendo, in questo caso a tutela della salute dei figli, i matrimoni tra consanguinei…

 

STERILITA', ADULTERIO E VEDOVANZA

Per capire quanto il matrimonio cristiano muti la condizione femminile basti considerare l’atteggiamento nuovo proposto dalla Chiesa dinanzi alla sterilità della donna, all’infedeltà del maschio o alla vedovanza. 

Tradizionalmente, nel primo caso, in tutte le culture antiche, l’infertilità di coppia veniva addossata alla moglie e giustificava il ripudio o il ricorso del marito ad altre donne, per ottenere il figlio desiderato. Si pensi ad esempio che le donne romane dovevano mettere al mondo almeno tre figli “per poter un giorno, alla morte del padre, essere libere da ogni tipo di tutela sui beni”. Inoltre si ricordi che esistevano cerimonie come i Lupercalia, durante le quali “uomini nudi, armati di cinghie di pelle caprina, fustigavano le donne per combatterne la sterilità”. Ancora nel Settecento intellettuali come l’illuminista Diderot considereranno le donne sterili degne di essere allontanate dal consorzio civile. Nel cristianesimo, invece, “è l’accordo di coppia che costituisce l’essenza del matrimonio e non la fecondità: in esso, infatti, non è più motivo di separazione la sterilità, che nelle società antiche era vissuta sempre come malattia femminile”. In altre parole: un cattolico che si sia sposato e scopra che la moglie non riesce a concepire, non ha mai il diritto di ripudiare o abbandonare la propria consorte, che dunque non perde affatto nulla della sua dignità anche se non può divenire madre (sterilitas matrimonium nec dirimit nec impedit). 

Quanto all’adulterio, nel matrimonio cristiano esso è proibito sotto pena di peccato mortale per entrambi i coniugi: “nella società romana, al contrario, la legge puniva severamente le adultere (il marito aveva diritto di ucciderle, ndr) mentre l’infedeltà dei mariti non era soggetta a sanzioni penali, né a una seria disapprovazione morale. Era anzi pienamente accettato che l’uomo intrattenesse rapporti sessuali con gli schiavi di entrambi i sessi presenti nella casa. Rifacendosi alle radici bibliche, Agostino scrive, sulla traccia di Paolo (I Corinzi, 6, 12-20), che l’eccellenza di una unione fedele è così grande che i coniugi diventano membra stesse di Cristo, per cui mancare alla fedeltà significa prostituire le membra stesse di Cristo”.

In molte culture non cristiane, ricorda Marzio Barbagli nel suo Congedarsi dal mondo (Il Mulino, 2009), la donna violentata è spesso considerata in qualche modo colpevole anch’essa: “nell’antica Roma non si faceva alcuna distinzione fra adulterio (femminile) e stupro, perché si riteneva che questo rapporto avesse sempre e comunque un effetto contaminante sulla donna sposata, sia che fosse consensuale sia che fosse dovuto ad un atto violento”. Di qui l’esistenza, ancora oggi, in certe culture, della lapidazione per donne violentate (si ricordi il caso divenuto celebre della nigeriana Safiya); di qui l’usanza di molte donne “disonorate”, dall’antica Roma alla Cina, antica e contemporanea, di suicidarsi. Fu sant’Agostino, nel solco della dottrina cattolica, a condannare tale consuetudine, negando che lo stupro “facesse perdere l’onore a una donna e dunque la riempisse di vergogna”. Per Agostino infatti “se una donna subiva violenza, poteva perdere l’integrità del suo corpo, la sua verginità, non la sua castità”! Per questo invitò le donne a non sentirsi affatto colpevoli, imponendo con la sua autorità, nella cultura di allora, questa innovativa distinzione: “Strano a dirsi, erano due (violentatore e violentata, ndr) e uno solo commise adulterio”.

La battaglia della Chiesa per la fedeltà coniugale, per il pudore, per l’autocontrollo degli istinti soprattutto maschili, per la santità del matrimonio, oltre che liberare l’uomo da una concezione animalesca del rapporto sponsale, ebbe quindi l’effetto di nobilitare e liberare la donna. Scrive Aline Rousselle: “Gli uomini (i romani pagani, ndr) non venivano allevati nell’idea di dover esercitare un certo autocontrollo. Per il ragazzo era normale guardare con occhio concupiscente le giovani schiave di casa. Ve ne erano sempre di giovanissime da usare per il proprio piacere. La frequentazione delle prostitute introduceva inoltre un elemento di varietà nei divertimenti amorosi del giovane”. Così anche “le mogli dell’alta società romana non avevano difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave o concubine. Talvolta erano esse stesse a scegliere queste ‘socie’ ”, sin dai tempi della Repubblica, dimostrando così di non ritenere neppure loro iniqua una sorta di poligamia del maschio. 

La novità del matrimonio cristiano non toglie, chiaramente, che la maggior forza dell’uomo, e le antiche consuetudini, nonostante la predicazione evangelica e il divieto di Costantino agli uomini sposati di possedere concubine, abbiano potuto continuare in qualche modo a sopravvivere; né che alcuni cristiani abbiano poco compreso questo insegnamento.

Però è innegabile che con la concezione cristiana di matrimonio la storia delle donne prende una strada totalmente nuova. Scrive lo storico medievista Jacques le Goff: “ Si dice spesso che in caso di adulterio non vi è uguaglianza fra uomo e donna. Ora, in un certo numero di casi molto particolari, e spesso molto famosi, l'uomo è stato severamente condannato dalla Chiesa, pensiamo al re di Francia Roberto il Pio o a Filippo Augusto. Roberto il Pio, nei primi anni dell'XI secolo, dovette separarsi dalla seconda moglie, Berta di Blois, poiché il clero lo considerava bigamo (la prima moglie era ancora viva) e incestuoso (i due erano consanguinei in terzo grado). Il papa Innocenzo III, invece, eletto nel 1198, lanciò l’interdetto contro il regno di Filippo Augusto, che aveva ripudiato nel 1193 la moglie, Ingeborg di Danimarca, e aveva sposato Agnese di Merania. Negli statuti urbani del XII secolo in Italia e del XIII in Francia, si trovano articoli sulla punizione dell’adulterio che prevedono dure pene sia per gli uomini che per le donne. Così, ad esempio, le Consuetudini di Tolosa del 1293, che raccomandano e illustrano in un disegno la castrazione di un marito adultero…”.

E’ opportuno ricordare anche il caso di Enrico VIII: se il papa Clemente VII gli avesse concesso di ripudiare la legittima moglie, Caterina d’Aragona, poiché non era “capace” di dargli un erede maschio, o perché Enrico era ormai innamorato di Anna Bolena, avrebbe evitato di perdere l’intera Inghilterra…invece il papa non ritenne di appoggiare la prepotenza del re inglese, per non violare un principio evangelico, la dignità di Caterina e, con essa, anche quella di tutte le altre donne possibili vittime del capriccio maschile.

Quanto infine alla vedovanza si è visto che i primi cristiani fecero il possibile per riconoscere alle vedove la loro dignità, senza imporre loro di porsi immediatamente sotto il dominio di un nuovo marito, come invece volevano le leggi di Augusto. Per fare questo venivano in aiuto anche economico a quelle di loro che avessero voluto rimanere tali. Così a Roma, nel 251, il vescovo Cornelio  assiste millecinquecente vedove e poveri della città, in ossequio all’insegnamento di san Giacomo apostolo: “Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni”  (Gc. 1, 27).