Don Lillo, il prete refrattario che non si piega al potere
Se qualcuno canta fuori dal coro e diventa prete refrattario, non gli si risparmia la gogna e il linciaggio mediatici. Questo è il caso di don Lillo che, da prete refrattario, non giura su nessuna Costituzione civile del clero, come sarà – se approvata – la legge Zan-Scalfarotto, ma mostra il dovere morale di opporsi al potere quando questo emana leggi ingiuste.
Il sacerdote palermitano don Lillo D’Ugo, che ha tenuto un’omelia diventata un caso nazionale, può essere paragonato a un prete refrattario. Nel 1791, l’Assemblea nazionale costituente – un organo, come si disse da allora in avanti e come si direbbe anche oggi, “democratico” – stabilì che i sacerdoti diventassero funzionari pubblici stipendiati dallo Stato e che sottoscrivessero per accettazione la Costituzione civile del clero. Coloro che firmarono furono detti costituzionali e quelli che non firmarono vennero chiamati refrattari. Chi firmava si impegnava ad esercitare il proprio ministero secondo le leggi dello Stato e se questo vietava di suonare le campane e di fare le processioni i preti costituzionali non suonavano campane e non facevano processioni. Come racconta il Gaxotte, un giorno una quarantina di preti refrattari furono fatti salire su un barcone sulla Senna, furono incatenati e poi al barcone furono fatti dei buchi. I preti morirono tutti annegati dopo essersi assolti i peccati l’un l’altro.
I sacerdoti italiani ricevono lo stipendio tramite l’otto per mille, ossia dallo Stato. Non hanno firmato una Costituzione civile del clero ma molti di essi si attengono scrupolosamente alle leggi emanate dal potere e nessuno dice dall’ambone cose che potrebbero dare disturbo al potere politico. Si può dire, quindi, che siano di fatto preti costituzionali. Se qualcuno canta fuori dal coro e diventa prete refrattario, non lo si mette su un barcone incatenato e pronto per annegare, ma non gli si risparmia la gogna e il linciaggio mediatici. Questo è il caso di don Lillo che, da prete refrattario, non giura su nessuna Costituzione civile del clero, come sarà – se approvata – la legge Zan-Scalfarotto, ma come avviene già nella prassi e con l’ausilio della legislazione attuale.
Nel caso degli attacchi violenti che egli sta subendo, non è sufficiente parlare di limitazione della libertà di espressione. Fa un certo ribrezzo vedere il silenzio di tanti paladini di questo moderno diritto individuale. Ma c‘è molto di più. Prima di tutto c’è in ballo il dovere morale di opporsi al potere quando questo emana leggi ingiuste.
Ogni persona ragionevole e, ancor più, ogni fedele della Chiesa cattolica, deve sapere che il potere in sé è pura forza e in quanto tale è incapace di legittimarsi da solo. Anche se la legge Zan fosse approvata all’unanimità rimarrebbe ingiusta e il potere che l’ha approvata ed emanata non avrebbe nessuna autorità né politica né morale. Il potere è legittimato dal fatto di essere strumento dell’autorità e questa è legittimata dall’agire per il bene comune, un fine che precede la politica e che ne è la misura.
Quando gli uomini di ragione e la Chiesa stessa non hanno più la forza di porre il problema della legittimità del potere, allora la dittatura è già in corso. Don Lillo si è opposto alla “democrazia totalitaria”, come si intitolava un famoso libro di Jacob L. Talmon degli anni Cinquanta del secolo scorso. La democrazia, intesa come prevalenza del numero, non è legittimata, è pura forza di fatto, ossia violenza. La violenza infatti è l’uso illegittimo (non solo illegale) della forza. Quando la democrazia approva una legge ingiusta, come è la legge Zan e come era la legge Cirinnà e tante altre leggi italiane degli ultimi cinque anni, fa un atto di violenza e chi tace collabora a questa violenza.
Secondariamente don Lillo ha difeso la libertà della Chiesa, non solo dei singoli individui, siano laici o ecclesiastici, ma della Chiesa. Tale libertà consiste nel diritto che consegue al dovere di svolgere un ruolo pubblico dichiarando la visione trascendente della vicenda umana. Nella sua omelia don Lillo ha detto che noi uomini vediamo solo le cose apparenti, non vediamo tutto. Ha aggiunto che alla nostra lotta per il bene partecipano anche i Santi e gli angeli buoni, naturalmente fanno la loro parte anche gli angeli cattivi. La Chiesa ha diritto (fondato sul dovere) di comunicare al mondo la sua teologia della storia, ossia che i giochi non si fanno solo quaggiù, ma anche in Cielo.
Credo che questa sia stata la parte più indigeribile dell’omelia di don Lillo agli occhi dei poteri mondani di oggi. Senza il fondamento trascendente, la dimensione naturale dell’uomo si trasforma in spontaneismo: come diceva Rousseau: «Ciò che sento essere bene è bene…, ciò che sento essere male è male». Questo spontaneismo per cui il bene per me lo decido io e le leggi devono permettermi di deciderlo io, è nemico del diritto e della politica. Anzi, così viene meno la stessa possibilità della comunità politica, rimangono solo gli individui e lo Stato, il quale è solo lo strumento per garantire il bene pubblico, inteso come la soddisfazione di quanto i cittadini vogliono. Non c’è criterio per i loro desideri, non c’è criterio per la trasformazione di questi desideri in diritti da parte dello Stato.
Contro una simile prospettiva tutta la Chiesa italiana si sarebbe dovuta alzare in piedi. Lo ha fatto un sacerdote palermitano. La Chiesa lo abbandonerà a se stesso o lo difenderà? Noi, intanto, lo difendiamo.