Divorzio e altro Le radici della divisione al Sinodo
Matrimonio, divorzio, famiglia comuninione ai divorziati. Presento una sintesi di un articolo apparso anni fa sulla rivista Il Regno di Fulvio De Giorgi, per far vedere come certe idee per me poco condivisibili, ma affiorate anche al recente Sinodo sulla famiglia, abbiano origini lontane.
L’Annuale della Chiesa in Italia è una pubblicazione che si riallaccia alla rivista Il Regno di Bologna, nella quale si passano in rassegna i principali eventi ecclesiali dell’anno, dando anche una propria interpretazione. Nel volume dell’anno 2009 c’è in primo piano un intervento del prof. Fulvio De Giorgi, docente di Storia dell’educazione presso la Facoltà di scienze della formazione dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Storia della pedagogia presso la facoltà di scienze della formazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia. L’articolo si intitola: «La personalizzazione dello sguardo. Per un rinnovamento della pastorale familiare» (Il Regno. Annuale 2009, Bologna 2010, pp. 57-67).
Presento una sintesi di questo articolo di un intellettuale cattolico di alto livello, per far vedere come certe idee per me poco condivisibili, ma affiorate anche al recente Sinodo sulla famiglia, abbiano origini lontane. De Giorgi inizia con la descrizione della svolta globale moderna: per millenni, fino al XIX secolo, le società “pre-globali” sono vissute sotto la minaccia della «sopravvivenza della specie umana». Da qui «la difesa sacrale della procreazione» e il «potere patriarcale», che ha dato origine a un «codice di onore familiare», con questi tratti distintivi: «la verginità femminile fino al matrimonio; il fidanzamento come patto familiare patrimoniale; il matrimonio come luogo domestico del potere patriarcale». Il cristianesimo ha fatto suo questo codice, sovrapponendo matrimonio religioso e matrimonio civile, e finendo per produrre un «cristianesimo anagrafico» (p. 58).
Il Vangelo ha rotto «ogni costrizione patriarcale», ma questo processo è ancora in svolgimento (p. 59). Secondo De Giorgi, «il riconoscimento della bellezza del matrimonio cristiano» deve dire «no al familismo». Che cos’è il «familismo»? È presentare «l’istituto familiare come soluzione alla difficoltà della società postmoderna», è mantenere quella «legittimazione patriarcale» che fa della vita familiare «un ostacolo oppressivo al Vangelo e alla sua liberazione» (p. 59). Qui De Giorgi se la prende indirettamente con il Family Day del 2005, che è stato per lui un grosso «equivoco», in quanto proiezione di un’ideologia politico-confessionale, «ostentando trionfalisticamente, con mobilitazioni di piazza, l’istituto familiare» (ivi).
Secondo punto: il Novecento, con il fenomeno della globalizzazione, rappresenta «la fine della cristianità anagrafica». Oggi si hanno solo «Chiese volontarie, a cui si aderisce per scelta consapevole» (p. 60). Strutture civili e strutture religiose non sono più sovrapponibili. Quindi «non è più un problema per la Chiesa se lo stesso diritto civile riconosce un rilievo giuridico, normandone diritti e doveri, ad altre forme di convivenza stabile tra esseri umani, siano o no eterosessuali» (ivi) [i corsivi qui e dopo riportati sono sempre nel testo]. In effetti, «si hanno ormai modelli diversi di convivenza sponsale» [!!!] (p. 57). Il diritto civile non entra nella sfera privata della sessualità: le convivenze infatti, siano o no eterosessuali, potrebbero anche «prevedere la continenza volontaria e la verginità consacrata» (ivi). [Qui sembra che De Giorgi faccia un po’ di confusione...]. Comunque, è un problema diverso «quello del diritto del bambino ad avere un papà e una mamma» (ivi).
Terzo punto: il contesto della società globale post-cristiana comporta luci e ombre. Luci: accresciuta sensibilità per la persona e per i suoi diritti, in particolare per i diritti delle donne, dell’infanzia, delle famiglie migranti. Ombre: neoliberismo, recrudescenza razzista e xenofoba, individualismo estremo, che fa entrare in crisi i legami familiari (p. 60-61). Allora è necessario riprendere il concilio Vaticano II, la cui riforma è stata progressivamente incatenata [!!!]. Va ripresa l’«autoriforma ecclesiale» [!!!], che «non enuncia il dogma e i comandamenti», ma annuncia «la liberazione evangelica» [?], con particolare riferimento ai problemi delle coppie e delle famiglie (p. 61).
Quarto punto: esistono dei «blocchi pastorali» da sciogliere. Anzitutto è necessario «approfondire la comprensione della sessualità umana» (p, 62). Oggi abbiamo una sessualità non solo resa «autonoma dalla procreazione», ma anche «nemica della procreazione», dove «l’aborto diviene mezzo contraccettivo» (ivi). Giovanni Paolo II ha sottolineato che il corpo umano è «sponsale» fin dal principio. Il dono fisico tra uomo e donna deve essere al servizio di «un progetto creaturale d’amore, nel reciproco accoglimento» (ivi). Il corpo e il sesso hanno un «valore positivo in sé, autonomo rispetto alla procreazione ma non suo nemico» (ivi) [ambiguo: valore positivo in sé, ma non autonomo!]. Nella Chiesa «si tende a non parlare di questo problema» (ivi). Ecco allora che De Giorgi lo affronta, ed è il problema della contraccezione. Riporta una lunga citazione del cardinale Carlo Maria Martini, secondo il quale è tempo di andare oltre la Humanae vitae di Paolo VI. Quello che conta non è dire «quali metodi contraccettivi usare», se naturali o non naturali, ma affermare «l’etica della tenerezza, cioè del dono nuziale reciproco» (p. 64). In altre parole, se il ricorso a metodi contraccettivi non naturali «avviene in un contesto di delicata attenzione e di tenerezza», perché condannarli? E perché non pensare per le coppie a un avvicinamento graduale al Vangelo? Oggi nei corsi di preparazione al matrimonio si presentano molte coppie che già convivono. Che cosa deve dire la Chiesa: «siete pubblici peccatori, pentitevi, vivete separati», oppure «annunciare con delicatezza e dolcezza, a coppie che sperimentano positivamente una realtà umana bella, una persona che già conoscono, Gesù, il quale accompagna a una speranza ancora più bella, perché può dar loro la vera felicità»? (p. 64-65) [queste idee sono state espresse nel recente Sinodo!]. Occorre personalizzare lo sguardo!
Quinto punto: questa «personalizzazione dello sguardo» è particolarmente urgente nel caso dei divorziati risposati. È difficile generalizzare, ma, si chiede De Giorgi, «è giusto negare a tutte queste persone [...] di nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo?» (p. 65). «Io penso – scrive – che la misericordia pastorale, debole ma doveroso riflesso della misericordia divina, possa lasciare alle comunità cristiane e ai loro legittimi pastori il necessario discernimento sull’ammissione all’eucaristia di divorziati risposati: discernimento certo non facile, ma non per questo impossibile e, comunque, non eludibile; discernimento esigente e senza sconti, che non renda vana la croce, ma neppure opacizzi la misericordia evangelica» (ivi) [anche queste idee sono state espresse nel Sinodo!]. Su questa linea, andrebbe anche rivista la questione della «sessualità di adulti non coniugati, che è troppo semplicistico rubricare sotto il segno assoluto del peccato» (ivi) [ma di che sta parlando? di conviventi? di omosessuali?].
Sesto punto: oggi «molte coppie chiedono in realtà alla Chiesa la benedizione di un contratto (contractus) matrimoniale che ignora del tutto la dignità sacramentale del patto (foedus) matrimoniale» (p. 66). Occorrerebbe perciò rivedere il canone 1055 del Codice di Diritto Canonico, secondo il quale «tra battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento».
Dato allora il contesto culturale odierno, la liberazione evangelica potrebbe immaginare «passaggi graduali nell’esperienza matrimoniale» (ivi). Come il sacramento dell’ordine prevede una gradualità (diaconato, presbiterato, episcopato), e come la vita religiosa prevede una gradualità (noviziato, voti temporanei, voti perpetui), così perché «il contratto matrimoniale non potrebbe prevedere una gradualità, culminante nel patto matrimoniale, sacramentale e indissolubile»? (ivi) [anche questa idea del matrimonio a tappe è stata espressa nel Sinodo!].
In conclusione, De Giorgi riconosce umilmente di non essere né un teologo né un pastoralista, ma di avere parlato «da laico battezzato e coniugato», che sente, «con una certa angoscia, il peso dei blocchi pastorali che ancora permangono, generando gabbie esistenziali di sofferenza» (p. 66). Il suo intento è quello di valorizzare «la bellezza del matrimonio cristiano e della famiglia, anche in questo XXI secolo, che aspetta una speranza che non deluda» (ivi). Chiude una lunga citazione di Paolo VI, Humanae vitae, nn. 8-9, che [bontà sua!] in alcune parti è sempre attuale (p. 66-67).
Concordo sulla preoccupazione pastorale dell’autore e sull’idea di mettere sempre più in luce la bellezza del matrimonio e della famiglia cristiana. Però non condivido per nulla le soluzioni da lui proposte. Il discorso andrebbe fatto a monte, nelle premesse antropologiche e teologiche, ma soprattutto rimane la domanda: che cosa vuol dire “sposarsi nel Signore”? (cfr 1Cor 7,39). E poi Gesù ha detto o non ha detto qualcosa sul divorzio e sull’adulterio (cfr Mc 10,11)? Si risponda prima a queste domande, il resto sono analisi sociologiche. Non so se il prof. Di Giorgi sia intervenuto successivamente su questi argomenti, ma comunque sembra che il suo testo in qualche modo abbia fatto scuola.