Divorzio, 50 anni (di disperazione) portati male
I 50 anni della legge Fortuna, altro che civilità: per la "conquista" del divorzio abbiamo già pagato un prezzo molto alto. Dalla fabbrica divorzista continuano a sgorgare immensi oceani di sofferenza, malesseri collettivi, disagio sociale, tragedie familiari, vite spezzate, episodi di violenza e pure impoverimento collettivo. Oggi persino nel mondo cattolico è palpabile la riluttanza nel proporre la questione. Il risultato è che mentre il numero delle separazioni si è stabilizzato, negli ultimi anni è letteralmente crollato il tasso di nuzialità.
Cinquant’anni portati malissimo. Ma come accade per certe signore di mezza età, vista la loro ottima posizione sociale, non ci può azzardare a dirlo se non di nascosto e tra pochi intimi.
Stiamo parlando del divorzio, del quale abbiamo appena celebrato la ricorrenza del mezzo secolo dalla sua introduzione in Italia. I commentatori che ne hanno trattato hanno seguito quasi tutti la suddetta regola, rimanendo sulla falsariga della “conquista di libertà”, soprattutto per il genere femminile. Sono infatti pochi gli impertinenti che, come il sottoscritto, quando parlano dell’argomento si ostinano a voler guardare in faccia la realtà tutta intera.
Quando pubblicai il mio primo saggio sul divorzio eravamo nel 2008, e già c’era chi guardava all’imminente ricorrenza del quarantennale come a un traguardo di progresso e di civiltà da celebrare. All’epoca il mio intento non fu quello di contrapporre alla ideologia divorzista una difesa delle ragioni del matrimonio. Anzi, il mio desiderio era di compiere un’operazione di laicità. La “Fabbrica dei Divorzi” (ed. San Paolo) volle essere un tentativo di guardare all’esperienza del libero divorzio giudicandola dai frutti. Non si metteva in discussione il dogma per cui si fosse trattato di una “conquista di civiltà” partendo da una petizione di principio. Al contrario, si voleva dimostrare, dati alla mano, quello di cui nessuno parlava, e cioè che per la pretesa conquista del divorzio in poco meno di quarant’anni già avevamo pagato un prezzo molto alto, in termini di malesseri collettivi, disagio sociale, tragedie familiari, vite spezzate, episodi di violenza, e pure di impoverimento collettivo.
La prima recensione la ricevetti su Famiglia Cristiana. Nulla di strano, visto che l’editore era lo stesso. Tre pagine intere con il titolo del libro – La Fabbrica dei Divorzi – citato persino in copertina. L'articolo iniziava così: “Un libro che farà discutere molto”. Quando lo lessi, benché sinceramente grato alle Edizioni Paoline, rimasi alquanto scettico, perché ero sicuro che non avrei trovato attenzione al di fuori di un ristretto circuito culturale. I fatti mi hanno dato ragione, perché ancor oggi che siamo arrivati al fatidico cinquantennale di cosa sia diventato il divorzio la società non ha affatto voglia di discutere.
Oggi persino nel mondo cattolico è palpabile una certa riluttanza nel riproporre la questione. Certo, sussiste ancora l’eroica fermezza di alcuni vescovi e parroci. Ma in molte altre diocesi e parrocchie – probabilmente la maggioranza – gli ecclesiastici sembrano persino compiaciuti del fatto di “essersi attestati su nuove posizioni”, come recitavano i bollettini di guerra ai tempi dell'Eiar, per non fare capire che le nostre truppe erano state sopraffatte.
Il primo esempio moderno di no-fault divorce, divorzio senza colpa, venne introdotto in California dal primo gennaio del medesimo anno 1970, sotto il governatorato di Ronald Reagan. Fu la prima volta in assoluto che, in uno Stato moderno, divorziare diventò un diritto soggettivo insindacabile di ciascuno dei coniugi. È innegabile che, secondo lo spirito del tempo, avrebbe dovuto trattarsi in particolare di un diritto femminile. Nel mondo nuovo che si era avviato con la grande contestazione del sessantotto, la donna avrebbe dovuto vedersi garantiti gli strumenti legali per liberarsi dalla dipendenza dal maschio. L’aborto fu solo il passo successivo, tanto che la famosa sentenza Roe Vs. Wade è del 1973, e la nostra legge sull’aborto seguì nel 1978, con il presupposto di voler autorizzare come “rimedio” ciò che anche in Italia sarebbe subito diventato un insindacabile diritto. Basta uno sguardo alle date per capire quanto fosse falsa la vulgata laicista sul “ritardo civile” che il nostro Paese avrebbe attraversato in quegli anni, a causa della presenza del Vaticano. Da allora, le cose si sono evolute in un senso univoco, in modo da rendere il divorzio sempre più facile e incondizionato, fino alla recente introduzione, nel 2015, del cosiddetto “divorzio breve”, e successivamente di quello che, in certi casi più semplici, si può ottenere senza nemmeno dover passare dal giudice o dagli avvocati.
Il millenario istituto del matrimonio è così divenuto nel giro di pochi decenni un negozio giuridico senza più alcun reale valore né privato né pubblico. Un vero e proprio caso unico del diritto civile, che per il resto si regge ancora sull'elementare principio per cui pacta sunt servanda. In realtà, le promesse del giorno delle nozze – coabitazione, fedeltà, impegno a crescere i figli insieme – al giorno d’oggi non hanno più alcun valore, perché i coniugi non hanno più strumenti per chiederne conto all'altro.
La gente comune ha iniziato a percepirlo, e a regolarsi di conseguenza. Infatti, il numero delle separazioni e dei divorzi in Italia è sempre sostenuto, ma ormai da un decennio a questa parte si sta stabilizzando. Negli ultimi anni, invece, è letteralmente crollato il tasso di nuzialità – cioè dei nuovi matrimoni –, mentre l’indice di natalità continua a essere tra i più bassi del mondo. Oggi, piuttosto che esporsi al rischio del divorzio, le coppie preferiscono non sposarsi nemmeno più e limitarsi al figlio unico. Tant’è che ogni anno i telegiornali ci confermano che le nuove nascite sono ormai stabilmente al di sotto della soglia psicologica delle cinquecentomila all’anno, e presto verranno surclassate dal numero delle morti.
Le ragioni di questo fenomeno epocale sono, a mio avviso, riconducibili a una sola: il matrimonio non è più percepito e praticato, né tanto meno tutelato dalla legge, come un’istituzione fondamentale della società. Esso non è più vissuto dalle persone come un’alleanza tra uomo e donna per uno scopo comune, stipulata non solo nell’interesse degli sposi e dei loro figli, bensì di tutta la società. Al contrario, il matrimonio oggi sembra essersi trasformato in una cerimonia facoltativa che prelude a un rapporto liberamente risolvibile, al quale si accede soltanto in vista della tutela dei propri interessi individuali, sia affettivi che economici. Senza alcun riguardo per le ragioni dei figli, le quali, rispetto alla volontà di separarsi dei genitori, passeranno regolarmente in secondo piano.
E allora, che senso ha attardarsi ancora oggi a parlar male del divorzio, invece di attendere che esso finisca per esaurirsi demograficamente, così come sembra che avverrà per il matrimonio? Il motivo è che, per quanto nessuno lo dica apertamente, a cinquant’anni dalla legge Fortuna-Baslini la questione del conflitto tra i sessi che si esprime nella rottura dei nuclei familiari non è stata per nulla metabolizzata. Nella realtà quotidiana, dalla fabbrica divorzista continuano a sgorgare immensi oceani di sofferenza, disagio psicologico, malessere economico. Ogni anno, solo in Italia, i fatti di sangue direttamente connessi alle separazioni genitoriali continuano inesorabilmente a essere migliaia. I morti sono stabilmente sopra il centinaio, e vengono ricordati solo in quanto si tratti di “femminicidi”, senza considerare che spesso anche l’autore di certi fatti finisce per suicidarsi, talvolta dopo avere ucciso anche i figli. Inoltre, se andassimo a indagare anche sui semplici suicidi, i numeri salirebbero vertiginosamente.
La crisi dell'istituto matrimoniale sta generando depressione, malesseri, disagio sociale e povertà collettiva, in maniera molto più ampia di quanto il mondo del diritto e della comunicazione siano disposti ad ammettere. Gli operatori di questi settori, infatti, lavorano tuttora sulla base delle coordinate culturali di cinquant'anni fa. Vedono ancora, cioè, il divorzio come strumento di liberazione da contrapporre alla struttura irrimediabilmente autoritaria della famiglia patriarcale. Tant'è che, quando certi eccessi si impongono alle cronache, l'unico abbozzo di spiegazione che i media riescono a proporre è quello della ancestrale violenza del maschio che non riesce a tollerare le nuove libertà femminili.
Cinquant’anni di disperazione, dunque. Altro che “conquista di civiltà”, come invece ebbe a dire ancora nel 2017 la parlamentare Alessia Morani, riguardo alla riforma del divorzio breve della quale era stata relatrice. Eppure, il giudizio corrente che abbiamo visto passare sui media, in questi giorni di ricorrenza del cinquantennale, ha continuato a essere tra il celebrativo e il trionfalistico. Ancora non si riesce a porre la questione della crisi del matrimonio nei termini di una vera emergenza sociale, e nemmeno si riesce ad avviare un serio dibattito sul significato che, ancora oggi, potrebbe avere l’istituzione nuziale.
E allora, che fare? Da parte mia – forte della mia ulteriore esperienza di avvocato – sto continuando a scrivere sul tema, non più soffermandomi sul divorzio in sé, quanto piuttosto su ciò che si potrebbe ancora fare per salvare il matrimonio. Nel 2018 è uscito un mio saggio sulla conciliazione familiare, intitolato “L’amore non si arrende”, e tra un paio di settimane uscirà un nuovo testo, intitolato al rapporto tra “Il diritto e il desiderio”, sempre per i tipi delle edizioni Ares.
Ho dovuto cambiare editore perché anche molti cattolici, oggi, sono in difficoltà nel liberarsi dalla gabbia del politicamente corretto, o per meglio dire ci si trovano a loro agio come fino a soli pochi anni fa era impensabile. Al contrario, però, per la società nel suo insieme sarebbe un bel passo avanti se cominciassimo a liberarci dei luoghi comuni sui quali si reggono le separazioni facili e le famiglie allargate. Come quello per cui i figli minori sarebbero meno pregiudicati da un divorzio rapido “tra persone civili”, piuttosto che dal crescere assieme a genitori conflittuali, o non più innamorati. Sarebbe, insomma, già un traguardo se gli operatori coinvolti – a partire dagli avvocati, ma anche i magistrati, gli psicologi e persino gli stessi mediatori familiari – si informassero di più sulle reali dinamiche delle crisi familiari, e alle persone interessate ogni tanto sapessero dire la verità. E magari anche qualche no.
*Avvocato, esperto di diritto di famiglia e scrittore