Diritto al matrimonio tra omosessuali? Ma la Convenzione europea dice il contrario
La sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo che condanna l’Italia perché discrimina le unioni gay, contiene aspetti davvero paradossali. La condanna viene giustificata in base all’articolo 8 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo. Ma l’articolo in questione tutela la vita privata e familiare come diritto umano fondamentale per proteggerlo da soprusi dello Stato totalitario. Come quello, appunto, attuato dalla Corte europea.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, organo giudiziario del Consiglio d’Europa – da non confondere con l’Unione Europea – ha stabilito con sentenza pubblicata ieri 21 luglio (“Caso Oliari e Altri vs Repubblica Italiana”) che la Repubblica italiana, non garantendo una posizione giuridica certa alle coppie conviventi dello stesso sesso, viola l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950.
L’articolo 8 della Convenzione recita: «Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti e delle libertà altrui». Questo articolo è stato voluto – come si evince dal secondo comma – per evitare ingerenze dei poteri pubblici nella vita privata e familiare.
I ricorrenti, cioè i sei cittadini italiani di orientamento omosessuale che hanno adito la Corte Europea, hanno invocato l’art. 8 lamentando che l’ordinamento giuridico italiano non riconosce in modo certo il loro status di coppia convivente, nega loro la possibilità di contrarre matrimonio e non dà alcuna protezione giuridica alla loro stabile relazione. La Corte Europea ha stabilito (§§ 185 e 205) che l’attuale situazione giuridica italiana è una violazione dell’art. 8, cioè la Repubblica italiana discriminerebbe le persone con orientamento omosessuale e violerebbe il loro diritto alla vita privata e familiare. La sentenza apre molteplici e articolati temi. Mi soffermo solo su tre aspetti.
1. L’art. 8 della Convenzione, citato sopra, tutela la vita privata e familiare come diritto umano fondamentale per proteggerlo da soprusi arbitrari dell’autorità statale, soprusi frequenti nei regimi totalitari. Oggi, invece, l’art. 8 è invocato per chiedere un intervento positivo dello Stato, anzi per obbligare o forzare la Repubblica italiana a legiferare. Ma i senatori e i deputati italiani sono liberi di discernere o sono stati commissariati dalla Corte Europea? Le due Camere del nostro Parlamento non sono più sovrane? Non è più sovrano il popolo italiano? O siamo davanti a dei miti oramai sorpassati degli ideali democratici parlamentari?
2. Queste rivendicazioni giuridiche, facendo leva su orientamenti e/o preferenze, trasformano orientamenti, preferenze e l’economia pulsionale dei desideri in altrettanti diritti soggettivi. La società non può organizzarsi intorno alle preferenze o orientamenti sessuali, che sono elementi anche importanti nella vita dei singoli, ma molto soggettivi. La società può organizzare se stessa solo su fatti oggettivi, come la dualità maschio-femmina, solo intorno a una relazione di coppia, a una alleanza fedele tra uomo e donna, che comporta parità nella dignità, alterità nell’identità sessuale e complementarietà nelle doti fisiologiche, corporee e nelle capacità intellettuali, emotive e affettive. Il matrimonio è proprio quella realtà nuova nella quale la donna e l’uomo si alleano nell’alterità e nella complementarietà donandosi reciprocamente come pari. Se una società vuole svilupparsi e crescere ha bisogno di promuovere solo un modello di vita, quello fondato sulla differenza maschio femmina dell’identità sessuale.
La Costituzione della Repubblica italiana, firmata il 27 dicembre 1947, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, e molti altri documenti nati negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale si basano su una convinzione comune: esiste un nucleo di beni umani che nessun potere giuridico e nessuna società potrà erodere e negare, anzi i poteri di uno Stato sono chiamati a riconoscerli e a promuoverli. Tale nucleo di beni è il contenuto dei diritti fondamentali dell’uomo, indisponibili per il singolo interessato e incomprimibili da parte di terzi. Tra questi beni fondamentali umani ricordo la vita e l’integrità fisica, la famiglia, il pensiero e la ricerca intellettuale, l’associarsi e l’iniziativa imprenditoriale.
Oggi questa convinzione è venuta meno, perché si è perso il riferimento al bene comune, perché il vero non sarebbe più un dato oggettivo che si mostra a ognuno anche attraverso le relazioni con l’altro. Il vero è diventato qualcosa di puramente esteriore, è il proprio punto di vista. La libertà non è più una tensione della volontà umana verso il bene comune – perché esso non esisterebbe più – ma è emancipazione da ogni tipo di condizionamento e limite. Di conseguenza la convivenza civile non è più ancorata ai beni comuni e fondamentali dell’uomo, è semplicemente percepita come un accordo tra coloro che hanno il potere di imporre la loro volontà agli altri, quindi accordo necessariamente transitorio e fluttuante tra gruppi di potere, accordo che può mettere mano anche su quei beni che un tempo erano il contenuto dei diritti fondamentali, non per perseguire un bene comune, perché esso non c’è e non può esser conosciuto, ma per realizzare l’interesse particolare di alcuni. Passiamo così da un modello di convivenza e quindi anche di diritto ancorato su di un nucleo di beni oggettivi (i diritti umani fondamentali) a un altro modello di convivenza e di diritto ancorato sull’orientamento pulsionale e sulle preferenze affettive.
Ancoraggio incerto, per non dire nullo. Perciò non meraviglia che il silenzio sui diritti umani fondamentali sia tanto diffuso quanto sia enfatizzata e sonante la rivendicazione dei diritti civili. La posta in gioco non è, come si vuole fare intendere, l’allargamento del diritto di matrimonio ad altri condensato nello slogan “più diritti per tutti”. Si tratta, invece, del tentativo di ridefinire di fatto il matrimonio: le coppie eterosessuali che vorranno sposarsi non potranno più accedere allo stesso istituto che ha unito i loro genitori e il legame sponsale che unisce i loro sarà stravolto in modo tanto brutale quanto silenzioso. Il tutto realizzato per consentire l'accesso al matrimonio ad una minoranza che non ha titoli per ottenerlo.
3. Riconoscere alle coppie dello stesso sesso prerogative e diritti tipici del matrimonio significa trattare in modo identico due relazioni, quella matrimoniale e quella tra persone omosessuali, che sono strutturalmente diverse. Trattare in modo identico fatti diversi è iniquo. Così come è iniquo trattare in modo diverso fatti identici. Come ho ricordato nel mio libro Gender. L’anello mancante?, già Aristotele (in Etica a Nicomaco 5,3,1131a22) aveva scritto: «Quando persone che sono nella stessa condizione ricevono trattamenti diversi, o quando persone che non sono nella stessa condizione ricevono un identico trattamento, allora sorgono battaglie e contestazioni». Paradossalmente la sentenza della Corte Europea del 21/07/2015 incoraggia a trattare in modo identico relazioni strutturalmente diverse e apre così a moderne forme di discriminazione alla rovescia.