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SANTA SEDE

Diplomatici vaticani: ecco perché sono preti

La diplomazia è ascoltata se
i diplomatici sono credibili. Per questo
il pontefice sceglie ambasciatori della Parola di Dio e non delle loro idee.

Attualità 14_06_2011
La cattedrale di San Pietro
Spesso ci si chiede perché i diplomatici pontifici, unanimemente apprezzati nel corpo diplomatico internazionale, siano sacerdoti. In tempo di scarsità di clero la Santa Sede non potrebbe servirsi di laici? A questa obiezione, sempre più ricorrente, Benedetto XVI ha voluto rispondere il 10 giugno 2011 ricevendo alunni e docenti della Pontificia Accademia Ecclesiastica, la scuola che prepara i diplomatici vaticani.

Il Papa ha anzitutto rivendicato con orgoglio che «la diplomazia pontificia, come viene comunemente chiamata, ha una lunghissima tradizione e la sua attività ha contribuito in maniera non irrilevante a plasmare, in età moderna, la fisionomia stessa delle relazioni diplomatiche tra gli Stati». Ha quindi offerto una vera e propria lezione sulla natura della diplomazia, difendendone anche il cerimoniale, che può sembrare antiquato ma ha un profondo significato simbolico.

«Nella concezione tradizionale, già propria del mondo antico, l’inviato, l’ambasciatore - ha detto il Papa - è essenzialmente colui che è stato investito dell’incarico di portare in maniera autorevole la parola del Sovrano e, per questo, può rappresentarlo e trattare in suo nome. La solennità del cerimoniale, gli onori tradizionalmente resi alla persona dell’inviato, che assumevano anche tratti religiosi, sono, in realtà, un tributo reso a colui che rappresenta e al messaggio di cui si fa interprete. Il rispetto verso l’inviato costituisce una delle forme più alte di riconoscimento, da parte di un’autorità sovrana, del diritto ad esistere, su di un piano di pari dignità, di soggetti altri da sé».

Perché la parola della diplomazia possa essere ascoltata, ha sottolineata il Papa, ci vogliono veri diplomatici, la cui professionalità non s'improvvisa. «Si tratta di un ruolo delicato, che richiede, da parte dell’inviato, la capacità di porgere tale parola in maniera al tempo stesso fedele, il più possibile rispettosa della sensibilità e dell’opinione altrui, ed efficace. Sta qui la vera abilità del diplomatico e non, come talora erroneamente si crede, nell’astuzia o in quegli atteggiamenti che rappresentano piuttosto delle degenerazioni della pratica diplomatica. Lealtà, coerenza, e profonda umanità sono le virtù fondamentali di qualsiasi inviato, il quale è chiamato a porre non solo il proprio lavoro e le proprie qualità, ma, in qualche modo, l’intera persona al servizio di una parola che non è sua».

«Le rapide trasformazioni della nostra epoca hanno riconfigurato in maniera profonda la figura e il ruolo dei rappresentanti diplomatici; la loro missione rimane tuttavia essenzialmente la stessa». Ma, si è chiesto il Pontefice, «come si pongono, in tutto ciò, la persona e l’azione del diplomatico della Santa Sede, che, ovviamente, presenta aspetti del tutto particolari?».

La scelta della Santa Sede è stata sempre chiara, e Benedetto XVI la riconferma: formare un diplomatico che sia anzitutto un sacerdote, «Egli, in primo luogo - come si è sottolineato più volte - è un sacerdote, un vescovo, un uomo che ha già scelto di vivere al servizio di una Parola che non è la sua. Infatti, egli è un servitore della Parola di Dio, è stato investito, come ogni sacerdote, di una missione che non può essere svolta a tempo parziale, ma che gli richiede di essere, con l’intera vita, una risonanza del messaggio che gli è affidato, quello del Vangelo. Ed è proprio sulla base di questa identità sacerdotale, ben chiara e vissuta in modo profondo, che si viene ad inserire, con una certa naturalezza, il compito specifico di farsi portatore della parola del Papa, dell’orizzonte del suo ministero universale e della sua carità pastorale, nei confronti delle Chiese particolari e di fronte alle istituzioni nelle quali viene legittimamente esercitata la sovranità nell’ambito statale o delle organizzazioni internazionali». Non si tratta dunque di una semplice scelta funzionale. Una vera ragione teologica fa scegliere alla Chiesa, per portare nell'agone diplomatico la parola della Santa Sede, il sacerdote, che è già l'uomo della Parola di Dio.

Ne consegue, ha aggiunto il Papa, che il buon diplomatico dovrà essere anzitutto un buon sacerdote. E si comprende «come, nell’esercizio di un ministero tanto delicato, la cura per la propria vita spirituale, la pratica delle virtù umane e la formazione di una solida cultura vadano di pari passo e si sostengano reciprocamente. Sono dimensioni che permettono di mantenere un profondo equilibrio interiore, in un lavoro che esige, fra l’altro, capacità di apertura all’altro, equanimità di giudizio, distanza critica dalle opinioni personali, sacrificio, pazienza, costanza e talora anche fermezza nel dialogo verso tutti».

Meno ancora di qualunque altro sacerdote, il diplomatico vaticano non dovrà esprimere le proprie opinioni ma quelle del Papa e della Chiesa. Infatti «il servizio alla persona del Successore di Pietro, che Cristo ha costituito quale principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione (cfr. Conc. Vat. I, Pastor Aeternus, Denz. 1821 (3051); Conc. Vat. II, Lumen Gentium, 18), consente di vivere in costante e profondo riferimento alla cattolicità della Chiesa. E laddove c’è apertura all’oggettività della cattolicità, lì c’è anche il principio di autentica personalizzazione: la vita spesa al servizio del Papa e della comunione ecclesiale è, sotto questo profilo, estremamente arricchente».

Un'orgogliosa difesa, dunque, di questa splendida e straordinaria istituzione, la diplomazia vaticana. Ma, insieme, un richiamo a riscoprire le ragioni e le radici che la rendono da secoli così ammirata ed efficace: ragioni che non sono semplicemente naturali, ma che hanno a che fare con la divina grandezza del sacerdozio.