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PROGETTI FALLITI

Difesa e immigrati, le solite chiacchiere dell’Europa

Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, il 14 settembre a Strasburgo, davanti alla plenaria dell’Europarlamento, ha anticipato una serie di iniziative nel campo della difesa comune e dei flussi migratori. Entrambi argomenti già discussi in passato, ma senza risultati.

Politica 19_09_2016
Difesa comune europea, un progetto irrealizzabile

Il fallito vertice Ue di Bratislava, in cui i partner della Ue non hanno trovato accordi concreti né sulle sfide della crescita economica né su quelle imposte dai flussi migratori, è stato anticipato da un lungo discorso sullo ”Stato dell’Unione” tenuto dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, il 14 settembre a Strasburgo, davanti alla plenaria dell’Europarlamento, in cui sono emerse anche una serie di iniziative nel campo della difesa comune e dei flussi migratori.

Nel primo campo, oggi molto vivace dopo l‘uscita dalla Ue della Gran Bretagna, Juncker ha messo in fila quattro priorità. La creazione di «un quartier generale unico» per le missioni civili e militari dell’Unione, il lancio di un «Fondo per la Difesa europea» per finanziare ricerca e innovazione nel settore, e l’attuazione di una disposizione presente nel Trattato di Lisbona secondo cui gli Stati membri che lo vogliano possono mettere insieme le loro capacità militari sotto forma di una «cooperazione rafforzata permanente».

«L’Europa deve rafforzarsi e questo vale in primo luogo per la nostra politica di difesa. L’Europa non può più permettersi di fare affidamento sulla potenza militare degli altri o di consentire che il suo onore in Mali sia difeso solo dalla Francia. Dobbiamo assumerci la responsabilità di proteggere i nostri interessi e il modo di vivere europeo». «Nell’ultimo decennio», ha continuato Juncker, «ci siamo impegnati in oltre 30 missioni civili e militari dell’Unione europea, dall’Africa all’Afghanistan. Ma senza una struttura permanente non possiamo agire con efficacia: così operazioni urgenti vengono rimandate; missioni parallele, nello stesso paese o nella stessa città, hanno comandi distinti. È arrivato il momento di creare un comando unico per queste operazioni».

Osservazione forse condivisibile, ma di cui sentiamo parlare da decenni e del resto un’Europa che vuole fare l’Unione partendo dalla fine invece che dall’inizio non ha molte speranze di raggiungere obiettivi concreti. Inutile parlare di difesa comune se ogni membro della Ue ha interessi e priorità diverse. Inutile dire che spendiamo tutti insieme meno della metà degli Usa, ma ne ricaviamo capacità operative pari solo a un decimo di quelle statunitensi. Il motivo è ben chiaro: ognuno dei singoli Paesi europei ha una sua sovranità nazionale, forze armate e intelligence autonome e persegue interessi spesso in competizione con quelli dei vicini.

Se, come a suo tempo fecero gli Usa, l’Europa si fosse fusa in uno Stato federale per poi dotarsi di moneta unica e forze armate unificate, il processo sarebbe stato virtuoso, quello attuale invece è vizioso e può essere attuato solo attraverso l’assimilazione dei partner più deboli da parte delle “potenze” europee. Non è un caso che dopo la Brexit di giugno (la Gran Bretagna è ancora la più grande potenza militare in Europa e il Paese che più spende per la difesa) di difesa europea si parli ad ogni occasione. In luglio la Germania ha varato un Libro Bianco in cui si dichiara «pronta ad assumere la leadership militare dell’Europa» e pochi giorni or sono Francia e Germania hanno presentato un progetto comune molto simile a quello enunciato da Juncker.

L’Italia, che si era illusa di poter ricoprire il ruolo di «terzo tra i grandi» con lo show di Ventotene in cui Matteo Renzi ha ospitato sulla portaeromobili Garibaldi Hollande e la Merkel, è stata esclusa dal club franco-tedesco che evidentemente ci considera solo «i più grandi tra i piccoli». É chiaro quindi che i vertici del comando congiunto saranno espressi dai Paesi della Ue che più spendono per la Difesa (Germania e Francia investono tra i 32 e i 34 miliardi annui contro i 13 dell’Italia) e che hanno il peso politico e le forze militari più potenti. 

Juncker ha espresso anche la necessità di costituire risorse militari comuni, in alcuni casi di proprietà dell’Unione europea stessa perché «la mancata cooperazione nel settore della difesa costa all’Europa tra i 25 miliardi di euro e i 100 miliardi di euro all’anno. Una somma di denaro con cui potremmo fare molto altro. Si può fare. Stiamo già costruendo una flotta multinazionale di aerocisterne. Dobbiamo solo copiare questo esempio». Difficile, però,   capire come impiegare queste risorse militari comuni se, come spesso avviene, non tutti i partner sono d’accordo a partecipare a un’operazione militare o a una guerra.

Juncker ha toccato anche i temi industriali. «Per una difesa europea forte è necessaria un’industria della difesa innovativa. Per questo proporremo prima della fine dell’anno un Fondo europeo per la difesa, che dia un forte impulso alla ricerca e all’innovazione». L’industria è forse il settore della difesa europea dove l’integrazione è già da tempo una realtà con società multinazionali e, consorzi e joint ventures. L’iniziativa proposta da Juncker rischia però di privilegiare progetti da realizzare per tutti i partner europei, ma sviluppati dalle maggiori potenze industriali del settore: ancora una volta Germania e Francia mentre l’Italia è più sbilanciata con la Gran Bretagna considerando le numerose divisioni di Finmeccanica-Leonardo presenti nel Regno Unito.

Trasformare l’Europa in un mercato monopolistico per l’industria militare franco-tedesca (già ben integrata e che da tempo ha assorbito parte dell’industria spagnola) costituirebbe un grande successo strategico per Parigi e Berlino. Juncker si è spinto anche oltre, prefigurando una «cooperazione strutturata permanente» per i partner Ue consentita peraltro dal Trattato di Lisbona che sarebbe l’anticamera dell’assimilazione degli apparati militari in quello franco-tedesco. Basti ricordare che il Libro Bianco tedesco prevede già l’arruolamento nella Bundeswehr di cittadini di altri Paesi della Ue. Al di à delle mire egemoniche dei “grandi d’Europa” resta il grande interrogativo di cosa intenda fare con le sue forze armate un’Europa rivelatasi incapace persino di difendere le sue frontiere dai traffici di immigrati clandestini gestiti dalla malavita.

Il presidente della Commissione europea, ha parlato anche di questo tema annunciando un piano di investimenti per l’Africa che consentirebbe di dare prospettive economiche a chi vuole emigrare in Europa. «Oggi noi lanciamo un piano ambizioso di investimento per l’Africa e i suoi vicini, che ha il potenziale di raccogliere 44 miliardi di euro di investimenti», ha dichiarato al Parlamento europeo a Strasburgo. «Se gli Stati europei contribuiscono, può arrivare fino a 88 miliardi di euro. Questo completerà il nostro aiuto allo sviluppo e ci permetterà di rispondere a una delle cause dell’immigrazione», ha proseguito. Un piano del genere, se anche avesse successo, richiederebbe comunque molti anni per dare i suoi frutti e i fluissi migratori certo non cesserebbero domani.

Inevitabile, poi, confrontare una cifra così enorme con la politica del rigore finanziario applicata in questi ultimi anni dalla Ue alla Grecia e ad altri Stati del Sud Europa, Italia inclusa. L’Unione ha affamato la Grecia e minato le economie e lo Stato sociale in tutto il Sud Europa e poi è pronta a donare, dopo i 6 miliardi ai turchi, 88 miliardi agli africani in cambio dell’auspicio che non ci mandino più i loro cittadini? Sono 60 anni che buttiamo miliardi in Africa nutrendo i suoi leader che non investono quasi mai in servizi ai cittadini e sviluppo perché con essi crescerebbero le richieste di libertà e democrazia e perché si ingrassano ulteriormente con le rimesse in valuta di quanti sono espatriati. Con i leader africani si deve certo usare la leva finanziaria, ma solo per minacciare lo stop agli aiuti economici a chi non si riprende i suoi immigrati illegali.