Di Cataldo e il reato discrezionale d'aborto
Il caso del cantante indagato per procurato aborto ai danni della ex fidanzata, mette in rilievo una delle contraddizioni della 194: l'eliminazione di un bambino non ancora nato è un diritto se la decide la donna, un omicidio se la donna non è d'accordo.
Il cantante Massimo Di Cataldo è indagato per maltrattamenti e procurato aborto ai danni della ex fidanzata Anna Laura Millacci. Non vogliamo qui indagare sul fatto se Di Cataldo sia o no colpevole, ovviamente non ci compete. Però questa notizia di cronaca tra il nero e il rosa ha portato a galla un reato pressoché misconosciuto: il procurato aborto. E portandolo a galla ha messo in rilievo – per chi lo osserva con una certa attenzione – anche una delle tante contraddizioni di cui è infarcita la legge 194 che ha legittimato l’aborto nel nostro paese.
La contraddizione è evidente. Un fatto che oggettivamente lede un bene indisponibile come la vita, diventa reato solo se la donna lo decide (e solo se non si rispettano alcune procedure). E’ quasi un’operazione al limite del magico: se quell’aborto subito dalla Millacci – posto ovviamente che si sia realmente verificato – fosse stato deciso liberamente dalla stessa donna era da considerarsi atto legittimo. Se invece è stato provocato contro la volontà della donna oppure senza il suo consenso magicamente diventa reato. La discriminante quindi non è il fatto in sé, cioè la conseguenza dell’atto che provoca l’aborto: in un caso come nell’altro siamo sempre in presenza di un piccolo cadavere. Quello che fa la differenza è la decisione della donna. Questo a testimoniare ancora una volta che il vero DNA della legge 194 non è il bilanciamento tra interessi contrapposti (vita/salute della madre versus vita del bambino), non è il verificarsi di alcune condizioni che permettono alla madre di sbarazzarsi del figlio, non è la tutela della salute psicofisica della donna, men che meno un’ipotetica tutela sociale della maternità. Nulla di tutto questo.
Il centro di gravità della legge sull’aborto è il principio di autodeterminazione della donna, principio dal peso specifico così elevato che ha il potere di mutare il vil ferro in oro, cioè un delitto in un “diritto”, un omicidio in un gesto di libertà e responsabilità. Se per l’omicidio la volontarietà è un’aggravante (non in senso tecnico) e lo Stato risponde con la sanzione, per l’aborto la volontarietà introduce nel dorato mondo dei diritti civili e lo Stato risponde offrendo tutti i mezzi disponibili perché la donna eserciti il suo “diritto” ad abortire.
Nel codice penale esiste un articolo, il 50, che non fa scattare la sanzione se un diritto è stato leso con il consenso del titolare del diritto stesso (es. il consenso prestato per un intervento chirurgico). La 194 in un certo qual modo ha applicato questo principio al reato di omicidio prenatale: se consenti all’aborto questo non è reato e il medico non finisce dietro le sbarre. Trattasi quindi di un reato potremmo dire discrezionale.
Ma la legge ha compiuto questa ardita operazione generando tre nefandezze giuridiche. Infatti l’art. 50 specifica che il diritto non deve essere indisponibile: invece la vita del feto è un bene indisponibile. Posto che al contrario ci si voglia riferire al “diritto” di abortire, il diritto deve essere nella disponibilità del soggetto che subisce il danno: ma la madre non dispone del “diritto” di uccidere il figlio. E in terzo luogo il vero titolare del diritto leso è il nascituro il quale di certo in tutti gli aborti che si sono effettuati sulla faccia della terra non ha mai prestato il suo consenso.
C’è poi un altro particolare interessante che avvalora la tesi che il fulcro della 194 è solo la libera scelta della donna. L’art. 18 così recita: “Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. […] La stessa pena si applica a chiunque provochi l'interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna”. Qui sono illustrate due fattispecie: l’aborto procurato e l’aborto preterintenzionale. Detto in soldoni nel primo caso il reo vuole procurare l’aborto (dolo), nel secondo non c’era questa intenzione, ma l’aborto si è comunque verificato a seguito di lesioni (ed è forse il caso del cantante Di Cataldo).
In diritto penale c’è giustamente una gradazione differente della pena tra condotta dolosa, punita con più rigore, e la preterintenzione, sanzionata con mano meno pesante, proprio perché nel secondo caso il danno più grave provocato non era stato cercato direttamente. Così accade per l’omicidio, ma non per l’aborto preterintenzionale che è trattato dal punto di vista sanzionatorio alla stregua dell’aborto procurato. Per quale motivo? La risposta forse è semplice: perché in entrambi i casi manca il consenso della donna. Sia nel caso dell’aborto procurato che in quello preterintenzionale la donna non voleva abortire e questo basta ad unificare le fattispecie che nella sostanza sono invece assai differenti. La sanzione scatta non perché si è ucciso il nascituro – anche in questo caso come in tutta la legge il bambino è il grande assente, così come nella vicenda massmediatica che riguarda il cantante romano – ma per la violenza perpetrata sulla madre. E quando in ballo c’è la libertà della donna è bene non andare tanto per il sottile e perdersi in vani distinguo tra dolo e preterintenzione.
C’è poi da notare un’ipocrisia del linguaggio dei giudici: si parla infatti di reato di “procurato aborto” (nemmeno di “aborto procurato”) e non di reato di “aborto volontario”. Nel caso dell’omicidio si usa l’espressione “omicidio volontario”, ma allora perché per l’aborto non si fa lo stesso usando l’espressione “aborto volontario” quando un terzo causa un aborto senza il consenso della donna? Perché semplicemente quest’ultima espressione era già stata appaltata per indicare l’aborto voluto legittimamente dalla donna. Si sarebbe così creata confusione o forse si sarebbe capito al volo che tra procurato aborto e aborto volontario nulla cambia negli effetti letali sul feto: sempre di azione che mira ad uccidere si sarebbe trattato. E quindi era necessario usare una coperta linguistica differente per occultare una medesima e ripugnante realtà. Da qui un’ultima domanda: se “omicidio volontario” suona così simile ad “aborto volontario” perché il primo è un reato e il secondo no?