Detroit in bancarotta, quale lezione per l'Italia
Detroit va in bancarotta e può avviare una procedura fallimentare come se fosse un'azienda privata. I comuni italiani, al contrario, non possono fallire. A pagare per i loro debiti ci sono sempre tutti gli altri italiani. Finché dura.
Detroit è fallita e dà una lezione importante anche per l’Italia. Delle cause del fallimento di questa grande città, la più grande bancarotta comunale nella storia degli Stati Uniti, avevamo già parlato su La Nuova Bussola Quotidiana. La città industriale, capitale dell’industria automobilistica, semplicemente non è più riuscita a reggere la zavorra di 18 miliardi di debito pubblico. Non riusciva più a pagare neppure le spese essenziali ed era già diventata una città fantasma. A luglio la procedura di fallimento era stata bloccata dalla sentenza della giudice Rosemarie Aquino, della corte del Michigan. La corte federale, però, si è espressa diversamente. Ed ora la città nordamericana avrà accesso al Capitolo 9 del Titolo 11 del Codice degli Stati Uniti: procedura fallimentare. L’amministrazione cittadina sarà agevolata nella transazione dei suoi debiti. A perderci saranno i lavoratori pubblici e i pensionati, a cui la città doveva molto e che, invece, si ritroveranno in mano circa un decimo di quel che si attendevano. I soldi sono semplicemente finiti. Per il futuro, Detroit dovrà vendere asset strategici e ripartire da una nuova vita, recuperando risorse in proprio, come avviene in tutte le città che fanno bancarotta negli Stati Uniti.
Perché si tratta di una lezione importante per l’Italia? A prima vista sembrerebbe un curioso caso di cronaca degli Stati Uniti. Ma dobbiamo capire che, nel Bel Paese, abbiamo tante piccole e grandi Detroit pronte a fare la stessa fine. Ma il modo di affrontare la loro crisi è diametralmente opposto rispetto a quello degli Usa. In Italia un comune non può fallire, nemmeno se ha un rosso deca-miliardario. L’esempio più eclatante è quello della capitale, Roma. Nel 2008 aveva un debito di 12 miliardi di euro, una Detroit alla testa dell’Italia. Come è stato assorbito? Scorporandolo. Il debito rilevato dall’amministrazione Alemanno, infatti, è stato cortesemente passato a una “gestione commissariale” creata ad hoc dall’allora governo Berlusconi. Non è stato cancellato, perché un debito non si cancella. È lì a gravare, da qualche parte, negli opachi conti della macchina amministrativa italiana. Una volta ripartita da 0, l’amministrazione Marino si è trovata comunque con un debito di 867 milioni. E cosa succede? Che il governo approva il Decreto Salva Roma (29 ottobre scorso), col quale il debito viene ridotto a 380 milioni. E gli altri 485? Ci pensa ancora una volta la “gestione commissariale”. Non solo: per aiutare le aziende municipalizzate in difficoltà, il governo ha destinato 200 milioni all’Atac, 100 milioni all’Ama, 28.5 milioni all’anno (per 3 anni) alla raccolta differenziata, 115 milioni a sostegno dei bilanci capitolini. Da parte dell’amministrazione Marino c’è solo l’impegno ad aumentare l’addizionale Irpef da 0,9 a 1,2, cosa su cui il sindaco della capitale “continua a resistere”. Ma il resto lo pagano i contribuenti italiani non quelli romani.
Neppure i comuni del Nord sono messi molto bene. Alla fine del 2011 il Sole 24 Ore aveva pubblicato la classifica delle città più indebitate. Tuttora quella classifica è usata da Beppe Grillo come clava critica contro le amministrazioni comunali. Da quei dati Milano aveva un debito di 3 miliardi e 931 milioni, Torino uno di 3 miliardi e 200 milioni, Genova 1 miliardo e 328 milioni. Fra le metropoli del Sud, Napoli batte tutti con un miliardo e mezzo di debito. La classifica risale, appunto, alla fine del 2011. I sindaci giurano di aver fatto il possibile per la riduzione di quei fardelli, ma le uniche notizie che ci arrivano riguardano tagli e aumenti di tariffe per far fronte a situazioni più o meno “emergenziali”. Visto che i comuni del Nord devono rispettare un patto di stabilità, devono ricorrere per forza a un rialzo delle tasse per coprire i loro buchi.
Ma la soluzione è sempre quella. Il comune italiano non è un ente che possa concedersi il lusso di fallire. Lo si deve salvare a tutti i costi coi soldi dei cittadini locali o nazionali, oppure spalmando il debito su tutti gli italiani. Nessun sindaco, in un sistema del genere, avrebbe un qualsivoglia incentivo a un’amministrazione più oculata. Ben venga l’esempio di Detroit, che ora è costretta a rinascere, con l’ingegno, coi soldi di investitori volontari, con la lezione appena impartita di una bancarotta, che faccia da monito a tutte le prossime amministrazioni. “Fallimento” è sempre una brutta parola, ma non muore nessuno: è una caduta da cui ci si può rialzare. Noi non possiamo cadere, ma per questo veniamo strozzati da tasse e debiti.