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CARCERI

Detenuti, quei braccialetti rossi di vergogna

Dovevano essere il pezzo forte del "Decreto svuotacarceri" approvato qualche mese fa dal governo Renzi. Ma i 2000 "braccialetti elettronici" per i detenuti da mandare ai domiciliari sono già esauriti. Dunque più nessuno uscirà di galera. Eppure  l'operazione braccialetti  è costata allo Stato ben 110 milioni di euro. 

Politica 04_07_2014
Il braccialetto per detenuti

Dovevano essere la regola e non più l’eccezione e avrebbero dovuto contribuire ad allargare gli angusti spazi delle carceri italiane ma, come spesso accade dalle nostre parti, fatta la regola, trovato l’inganno. Così anche i braccialetti elettronici per detenuti, una delle meraviglie portanti del “Decreto svuota carceri”, sono finiti per diventare l’ennesimo prova dell’approssimazione giudiziaria e della cialtroneria amministrativa dello Stato. A disposizione dei giudici ce n’erano 2000: andati via come il pane dopo l’entrata in vigore del decreto e fino al prossimo anno non ce n’è più. Dunque, basta detenuti in libera uscita e tanti saluti allo “svuotacerceri”. 

Eppure l’idea era lastricata di buone intenzioni. Se le carceri scoppiano e i detenuti sono stretti nelle celle peggio delle api negli alveari, s’era detto allora, mandiamone un po’ agli arresti domiciliari: con il portentoso braccialetto-cavigliera non potranno scappare. Il marchingegno collegato alla centrale operativa della polizia più vicina darà l’allarme se il galeotto avrà avuto la sconsiderata idea di interrompere le trasmissioni.Semplice ed efficace, no? E allora perché del gioiello elettronico ne sono stati fatti soltanto 2000 esemplari, tutti esauriti dopo pochi mesi? E’ uno dei tanti misteri di questa ingarbugliata vicenda: dal contratto con la società fornitrice del grazioso monile, la Telecom, fino ai costi stellari dell’intera operazione. Nove milioni di euro solo nell’anno in corso, quasi 110 dall’inizio dell’esperimento. Cifre da capogiro per quei braccialetti venduti allo Stato a più di 55 mila euro ciascuno, manco fossero firmati dai maestri orafi di Tiffany o Bulgari. Inevitabile che la Corte dei Conti chiedesse spiegazioni sulla stratosferica parcella ai diversi governi che si sono succeduti dal 2001. 

La storia, infatti, comincia il 21 aprile del 2001 quando sul peruviano Augusto Cesar Tena Albirena, 43 anni, condannato per traffico di droga, viene piazzato, in via sperimentale, uno dei braccialetti elettronici che l’allora ministro dell’Interno del governo di sinistra, Enzo Bianco, decide di sperimentare sui detenuti. Bianco firma una convenzione capestro con Telecom con una procedura un tantino bizzarra e niente affatto trasparente. Ma, soprattutto, costosa. L’affitto del “Personal identification device”, infatti, già allora costava 60 mila lire al giorno: soldi buttati perché soltanto due mesi dopo la prima sperimentazione, del peruviano s’erano perse le tracce. Non meglio andò, l’anno dopo, al secondo tentativo: un detenuto siciliano resiste al braccialetto per qualche giorno prima di presentarsi, disperato, ai carabinieri: vuole tornare in carcere perché l’infernale aggeggio suona ogni cinque minuti. Più fortunato, invece, un boss mafioso di Messina condannato all’ergastolo: scappa dall’ospedale dove è ricoverato senza alcun problema: l’allarme del braccialetto scatta soltanto diversi minuti dopo lasciando al criminale tutto il tempo per darsi alla macchia. 

 Siamo nel 2003 e al governo arriva Berlusconi. Il nuovo ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, ritorna sulla pratica: rifirma un contratto con Telecom che deve garantire, oltre all’installazione. anche l’assistenza tecnica. Ma la musica non cambia: dei 50 braccialetti acquistati ne vengono utilizzati soltanto una decina e con risultati disastrosi. Gli altri restano a invecchiare per anni nella cassaforte del Viminale, ormai scarichi e buoni solo per essere buttati. Rinnovo su rinnovo, si arriva al governo Berlusconi del  2011che conferma l’accordo, lo stesso fanno Monti e  infine Renzi: un contratto da 11 milioni annui con Telecom che porta così a 110 i milioni il totale speso per il braccialetto “svuota carceri”. Con quei soldi si potevano certo ristrutturare e ingrandire un bel po’ di celle. L’inghippo, dicevano allora i ministri, era dovuto soprattutto alla cattiva collaborazione dei magistrati che, nelle loro sentenze, non prescrivevano mai i braccialetti. E, nei rari casi in cui ciò accadeva, le Questure non sapevano dove andarli a trovare. Telecom, invece, collaborava alla grande, zelante nel mantenere gli impegni assunti e nell’incassare con regolarità e soddisfazione i suoi milioni di euro per tenere collegati giorno e notte quegli inutili monili. Fine della storia. 

Il contratto Telecom scade solo nel 2018 e, in ogni caso, per avere qualche  braccialetto in più occorrerà aspettare fino al prossimo anni e indire una nuova gara. Sulla sciagurata convenzione con la società telefonica, poi, pende il giudizio della Corte di Giustizia europea, dopo il ricorso di Telecom sulla sentenza del Consiglio di Stato che dichiarò illegittimo l'accordo. E adesso che la scorta elettronica è finita, toccherà ai soliti noti (carabinieri e polizia) vegliare che a qualche detenuto mandato ai domiciliari non venga la tentazione di svicolare. Centodieci milioni di euro per un pugno di carcerati con al polso un aggeggio da 55 mila euro: una celletta 8x6, con tv, frigo, armadio e poltrona-letto veniva via per meno di un terzo. Insomma, anche se quei braccialetti non sono rossi, adesso dovrebbero esserlo per la vergogna.