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PRIMA GUERRA DEL GOLFO

Desert Storm 25 anni dopo Fu vera gloria?

Venticinque anni fa, tra il 17 e il 18 gennaio 1991, iniziò l’operazione Desert Storm, la guerra di una coalizione a guida statunitense, con mandato delle Nazioni Unite, di cui l’Italia faceva parte, contro l’Iraq di Saddam Hussein, che aveva invaso e occupato il Kuwait. Appena pochi anni prima, con la guerra tra Iraq e Iran, Saddam appariva come il migliore alleato dell’Occidente. Ma Desert Storm servì davvero a qualcosa?

Esteri 19_01_2016
Militare americano in Kwait

Venticinque anni fa, tra il 17 e il 18 gennaio 1991, iniziò l’operazione Desert Storm, la guerra di una coalizione a guida statunitense, con mandato delle Nazioni Unite, di cui l’Italia faceva parte, contro l’Iraq di Saddam Hussein, che aveva invaso e occupato il Kuwait. Appena pochi anni prima, durante la guerra tra Iraq e Iran, Saddam era apparso a molti come il migliore alleato dell’Occidente, l’uomo capace di fermare l’espansionismo degli ayatollah iraniani andati al potere con la rivoluzione del 1979. Com’era possibile che ora si fosse trasformato nel nemico internazionale numero uno? E servì davvero a qualcosa l’operazione Desert Storm, nota anche come prima Guerra del Golfo?

Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro, e risalire alla costruzione dell’Iraq come Stato artificiale inventato a tavolino dagli inglesi. Dove oggi c’è l’Iraq, fino alla Prima guerra mondiale c’erano tre province, tra loro autonome, dell’Impero Ottomano: quelle di Mosul al Nord, di Baghdad al centro, e di Bassora al Sud. Si può dire ogni male del modo in cui i turchi amministravano i loro possedimenti. Ma su un punto si dimostravano più accorti dei loro successori coloniali europei. Ciascuna provincia (vilayet) aveva i suoi usi e le sue leggi, e province con composizioni etniche e religiose diverse non erano messe insieme. Così il Nord intorno a Mosul – di religione sunnita ed etnia curda, con un’importante minoranza cristiana – era tenuto separato dal centro raccolto intorno a Baghdad – pure di religione in buona parte sunnita, ancorché con aree sciite, ma di etnia araba – e dalla provincia meridionale di Bassora, a forte maggioranza sciita.

Dopo la Prima guerra mondiale, gli accordi tra Francia e Regno Unito lasciarono l’amministrazione di queste tre province agli inglesi, che nel 1920 decisero di metterle insieme e di dare vita a un regno unitario, che chiamarono Iraq. La scelta fu orientata dai consigli di un’esperta britannica, Gertrude Bell, imbevuta di pregiudizi anti-sciiti Per lei gli sciiti, in quanto avevano un clero, assomigliavano ai cattolici, che detestava – arrivò perfino a scrivere che gli sciiti, come i cattolici, erano guidati direttamente dal Diavolo – mentre i sunniti erano simili ai protestanti. Per prevenire la formazione di uno Stato a forte maggioranza sciita nel centro e Sud della regione, la Bell preferì inventate l’Iraq, mettendo insieme tre province che non si erano mai amate tra loro. Per giunta, al neonato Regno dell’Iraq gli inglesi imposero un monarca straniero: Feisal I, suggerito da Thomas Edward Lawrence, il famoso Lawrence d’Arabia, militare, agente dei servizi inglesi e romantico ammiratore delle tribù della penisola arabica, da cui veniva il nuovo re.

Non ci voleva Sherlock Holmes per prevedere che gli sciiti si sarebbero ribellati a un re sunnita e straniero, mentre pure i curdi del Nord – per quanto anche loro sunniti – non accettavano un monarca arabo e reclamavano l’indipendenza. Seguirono nove anni di guerra civile, dal 1920 al 1929, con quindicimila morti di cui quattromila inglesi e con una scia di odio fra sunniti e sciiti, e fra arabi e curdi, che continua ancora oggi a esercitare i suoi effetti. Alla fine, gli elettori inglesi, come quelli americani nella seconda Guerra del Golfo novant’anni dopo, si stancarono di vedere i loro figli che andavano a morire in Iraq in una guerra incomprensibile, e il governo britannico decise di ritirarsi, addestrando in tre anni un esercito nazionale iracheno che divenne il più numeroso e meglio armato della regione. Bene o male, questo esercito – guidato e maggioritariamente composto da sunniti, per volere dei britannici – riuscì ad avere ragione delle resistenze sciita e curda.

Ma i rapporti con la Gran Bretagna si guastarono, e la monarchia irachena finì per allearsi con la Germania nazista, il che indusse gli inglesi a occupare di nuovo il Paese durante la Seconda guerra mondiale. A loro volta, queste vicende indebolirono la monarchia, cui pose fine nel 1958 un sanguinoso colpo di Stato militare. Diverse fazioni di militari cominciarono poi a scontrarsi fra loro, fino a che nel 1979 emerse un uomo forte destinato a reggere il Paese per ventitré anni, Saddam Hussein (1937-2006). È importante notare che tutte queste vicende sono avvenute all’interno del mondo sunnita. La monarchia e le varie fazioni militari non erano d’accordo tra loro su nulla, eccetto una cosa: tenere la maggioranza sciita del Paese lontana dal potere.

Particolarmente anti-sciita, il sunnita Saddam fu sostenuto, e forse messo al potere nel 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, dall’Occidente, perché impegnò subito la Repubblica islamica sciita dell’Iran in una lunga e terribile guerra, durata otto anni con un milione di morti, frustrando le sue mire espansionistiche verso Ovest. All’epoca, Saddam era il beniamino non solo dell’Occidente, ma anche delle monarchie sunnite del Golfo, Arabia Saudita in testa, che lo sostennero con aiuti economici molto generosi, sempre in funzione anti-iraniana, cioè anti-sciita. Con questi aiuti, e nonostante la guerra, Saddam riuscì a tacitare gli oppositori interni, garantendo agli iracheni un decoroso livello di vita.

Con la fine della guerra con l’Iran, finisce anche la luna di miele con l’Occidente e con l’Arabia Saudita. Saddam comincia a reprimere non solo gli sciiti e i curdi – questi ultimi in modo particolarmente sanguinario – ma anche i suoi correligionari sunniti che sognano uno Stato islamico di tipo saudita. Come reazione, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo chiedono la restituzione delle ingenti somme versate durante la guerra Iran-Iraq a titolo di aiuti, gettando Saddam Hussein sul lastrico. Come reazione, il 2 agosto 1990 l’Iraq invade e occupa il vicino e ricco Kuwait. Ogni soluzione negoziata fallisce, e cadono nel vuoto anche gli appelli di San Giovanni Paolo II perché si eviti una guerra. Non solo il Kuwait è un nodo petrolifero cruciale, ma le altre monarchie sunnite del Golfo reclamano a gran voce l’intervento statunitense, minacciando in caso contrario il rovesciamento di alleanze storiche. 

Il 29 novembre 1990 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu dà un ultimatum a Saddam: si ritiri dal Kuwait entro il 15 gennaio 1991, o contro di lui sarà usata la forza. Saddam non ottempera, e scaduto l’ultimatum inizia la guerra, che si conclude con la facile vittoria della coalizione occidentale. L’Iraq è costretto ad abbandonare il Kuwait, anche se la guerra si mantiene nei limiti del mandato Onu. Le truppe occidentali si fermano, non arrivano fino a Baghdad e non rovesciano il regime di Saddam, contro il quale è però imposto un embargo che danneggerà ulteriormente la sua economia. La prima Guerra del Golfo non va ovviamente confusa con la seconda, del 2003, che gli Stati Uniti intrapresero per rovesciare il regime di Saddam, accusato di complicità con il terrorismo internazionale. La seconda, a differenza della prima, fu condotta dagli Stati Uniti senza mandato dell’Onu, differenza di rilievo dal punto di vista del diritto internazionale. 

Ma la prima guerra servì? Si possono dare tre risposte. La prima è che servì all’equilibrio petrolifero della regione, che sia gli Stati Uniti, sia l’Arabia Saudita – e anche, all’epoca, la Russia, che non si oppose all’ultimatum del Consiglio di Sicurezza – consideravano gravemente compromesso dall’occupazione irachena del Kuwait. Esperti accademici del mercato del petrolio hanno proposto conclusioni diverse, ma venticinque anni fa la tesi che non si potesse tollerare l’uso della forza per alterare gli equilibri petroliferi mondiali era molto diffusa. 

La seconda è che Desert Storm contribuì in modo grave al successivo sviluppo del terrorismo. La presenza di truppe americane, soldatesse comprese, che passavano dal sacro suolo dell’Arabia Saudita per andare a combattere in Kuwait irritò molti giovani sauditi e li indusse a passare al terrorismo. Lo stesso bin Laden ha scritto che lo scandalo degli stivali e delle donne soldato americane sul sacro suolo del Paese che ospita La Mecca e Medina fu un elemento decisivo per far diventare al-Qa’ida – all’inizio un semplice coordinamento di miliziani che avevano partecipato alla guerra contro i sovietici in Afghanistan – quello che poi in effetti diventò. Determinò, inoltre, un malcontento profondo fra i sunniti iracheni – ulteriormente esasperato poi dalla seconda Guerra del Golfo e dal passaggio del potere in Iraq a governi dominati dagli sciiti – che è alle origini, neppure troppo remote, dell’Isis.

La terza risposta è che la prima Guerra del Golfo – insisto, da non confondere con la seconda – era legittima dal punto di vista del diritto internazionale, in quanto condotta su mandato delle Nazioni Unite. Ma era una “guerra giusta” dal punto di vista della morale? Qui i dubbi rimangono. San Giovanni Paolo II non si poneva dal punto di vista soltanto del diritto, ma della pace e, come si direbbe oggi, della misericordia. Personalmente, come forse qualche lettore più anziano ricorda, ero favorevole all’intervento militare, perché la violazione del diritto internazionale da parte di Saddam, che aveva invaso un Paese sovrano, mi appariva macroscopica. Fui favorevole anche alla seconda Guerra del Golfo, non perché credessi che Saddam fosse dotato di armi di distruzione di massa, ma perché pensavo, e lo penso ancora, che fosse lui stesso un’arma di distruzione di massa: particolarmente dei curdi attraverso una serie di eccidi efferati, che non potevano essere tollerati anche mettendo sull’altro piatto della bilancia il rapporto relativamente buono instaurato dal dittatore con la minoranza cristiana. Pensavo anche che Saddam, in funzione anti-americana, sostenesse occultamente almeno una delle correnti del terrorismo ultra-fondamentalista islamico, quella di Zarqawi, il che è stato poi confermato da numerosi documenti.

Non ho cambiato opinione sulla malizia di Saddam, ma l’ho invece cambiata sulle assicurazioni degli americani di avere un piano chiaro e coerente per il dopo-Saddam in Iraq. Si è poi scoperto che non ce l’avevano, e la mancanza di questo piano è il terreno sul quale è fiorito l’Isis, peraltro inizialmente sostenuto o almeno tollerato da molti per la stessa ragione per cui era stato sostenuto e tollerato Saddam quando andò al potere nel 1979: perché l’Isis odia, attacca e tiene impegnati gli sciiti, impedendo la nascita di una “mezzaluna sciita” dal Libano all’Iran, che minaccerebbe le monarchie petrolifere del Golfo, alleati economici essenziali dell’Occidente.

Le questioni, come si vede, sono molto complesse. San Giovanni Paolo II vedeva profeticamente nel 1991 che la guerra, o le guerre, non le avrebbero risolte. E su questioni di questo genere sono lecite divergenze di opinioni anche in buona fede. Nel 2004, in pendenza di elezioni presidenziali e politiche americane, sorsero controversie tra i vescovi americani sull’ammissione di politici cattolici all’eucarestia. Molti vescovi la negavano, correttamente, ai politici che sostenevano apertamente aborto ed eutanasia (la questione del “matrimonio” omosessuale, ovviamente di analoga gravità, non era ancora all’ordine del giorno). Alcuni proponevano di estendere l’esclusione dall’eucarestia ai politici favorevoli alla pena di morte, che San Giovanni Paolo II – come oggi papa Francesco – invitava invece ad abrogare, o ai parlamentari che si erano schierati a favore delle Guerre del Golfo, tanto più della seconda, non autorizzata dall’Onu e condannata dal Papa, che per la verità era contrario anche alla prima. 

Intervenne con una lettera riservata – che divenne presto pubblica (clicca qui) la Congregazione per la Dottrina della Fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger. E chiarì che le due questioni non sono sullo stesso piano. «Non tutte le questioni morali», scriveva allora Ratzinger, «hanno lo stesso peso morale dell’aborto e dell’eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre sull’applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi per questa ragione indegno di presentarsi a ricevere la Santa Comunione. Mentre la Chiesa esorta le autorità civili a perseguire la pace, non la guerra, e a esercitare discrezione e misericordia nell’applicare una pena a criminali, può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all’aborto e all’eutanasia».