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ECONOMIA

Debito USA, due scuole contrapposte

Tagliare la spesa o aumentare le tasse? Lo scontro è politico. Nel mezzo combattono i "Tea Party", ma la posta in gioco non è solo americana.

Attualità 28_07_2011
tagli del debito

 

Se nulla accade, fra cinque giorni negli Stati Uniti scoccherà l’ora fatale.
È infatti fissata al 2 agosto la scadenza del tempo utile per tenere l’indebitamento del Paese entro il tetto stabilito per legge, ma Casa Bianca e Congresso federale sono da settimane fermi su posizioni irriducibilmente contrapposte. A nulla sono infatti sinora valsi i tentativi di conciliazione e compromesso.

Questo perché negli Stati Uniti esiste una legge, varata nel 1917 e più unica che rara - solo la Danimarca ne ha una analoga -, atta a porre sotto costante e stretta marcatura il debito pubblico attraverso la fissazione del debt-ceiling, il tetto massimo a cui può giungere l’indebitamento del Paese.

La legge venne approvata durante la presidenza di Thomas Woodrow Wilson in concomitanza con l’ingresso nella Prima guerra mondiale degli Stati Uniti proprio per istituire freni concreti al rischio che l’“economia di guerra” - una delle maggiori bestie nere dei critici dello statalismo - finisse per travolgere il Paese moltiplicandone in maniera incontrollata le spese. La legge ha quindi i suoi anni, come dicono i suoi critici, anche se non li porta male, come si affrettano a rispondere i suoi fautori. Sia come sia, il suo punto nodale è però il fatto che il tetto sfondare il quale è anatema lo fissa il Congresso federale. Vale a dire è variabile, alias perché no negoziabile, insomma impossibile da immaginare del tutto impermeabile agli strattoni per la giacchetta a cui, in questo e in altri campi, la politica rinuncia assai difficilmente.

Ora, dato che il tetto è attualmente fissato a 14.294 miliardi di dollari, dato che già il 16 maggio l’indebitamento americano era giunto a 14.292 miliardi, e visto che negli ultimi tre anni è aumentato di mille miliardi ogni sette mesi circa, la Casa Bianca non pensa più di riuscire a domarlo in tempo e quindi punta tutto (da un po’) sull’innalzamento del "sacro limes".

Il termine del 2 agosto ha infatti una particolarità: quel giorno scade il tempo utile per domare il mostro scatenato dell’indebitamento americano che però coincide con quello buono a trovare un accordo capace d’imbrigliarlo alzando il tetto. Facile, dunque, che ci vuole? Difficilissimo, invece: occorre un accordo squisitamente politico fra due fronti l’uno contro l’altro armato come da tempo non si vedeva.

Per quale motivo? Probabilmente molti, ma due sono quelli principali, l’uno più interessante l’altro più qualificante.

Il primo - molto interessante - è l’uso scopertamente politico che il Congresso federale sta facendo del braccio di ferro sul debt-ceiling. In termini italiani, lo definiremmo un braccio di ferro tra maggioranza e opposizione. Nel sistema federale statunitense, infatti, il capo del governo (e dello Stato) è il presidente federale (la Casa Bianca), laddove l’organo legislativo - il "parlamento" - è il Congresso federale, bicamerale. Dalle elezioni di "medio termine" per il rinnovo del Congresso del 2 novembre scorso, la Camera federale ha eletto - con un cambio di rotta clamoroso e importante anche sul piano tanto dei numeri quanto delle percentuali - una maggioranza di segno politico diverso e avverso a quello della Casa Bianca (accorciando per di più sia numericamente sia simbolicamente le distanze anche al Senato). Alla Casa Bianca governata da un monocolore espresso dal Partito Democratico si oppone quindi da sette mesi tondi (la nuova Camera uscita da quelle elezioni si è insediata il 3 gennaio) un Congresso che fino a pochi mesi prima era retto sia alla Camera sia al Senato da maggioranze espresse dalla medesima formazione politica, ma che ora si pone di fronte a essa in maniera asimmetrica: al Senato con la stessa maggioranza (anche se assottigliata) che esprime l’esecutivo, Democratica, mentre alla Camera con una maggioranza, Repubblicana, che, tra Casa Bianca e Congresso federale, è invece minoranza.

Ma sarebbe ancora poco se sull’intero scenario non dominasse incontrastata la prospettiva delle prossime elezioni politiche, quelle che decideranno il nuovo presidente federale il 6 novembre 2012, rinnovando al contempo ancora gran parte del Congresso federale (tutta la Camera e un terzo del Senato) con probabili ulteriori e maggiori avanzamenti dei Repubblicani pure al Senato.

Dal novembre scorso, dunque, per forza di cose la Casa Bianca è costretta a patteggiare ogni e qualunque azione di governo con un Congresso nell’insieme assai meno amico, nello specifico con una Camera non proprio accogliente.

Negando a Obama il compromesso che permetterebbe l’innalzamento del debt-ceiling, e quindi una risoluzione del contenzioso, i Repubblicani pensano adesso di ridurre più la Casa Bianca che non il Paese sul lastrico, sfruttando poi a fini elettorali l’incapacità palese del presidente di salvare gli Stati Uniti dal disastro economico.

E che quella di Obama sia "incapacità palese" a governare (anche) l’economia nazionale i Repubblicani pensano di dimostrarlo agli americani attraverso il secondo motivo che li spinge a non conciliare, il motivo (agli occhi dell’elettorato, il loro e quello nuovo che stanno cercando per il 2012) più qualificante.

Gli americani che il 2 novembre 2010 hanno scelto la composizione della Camera dell’attuale Congresso degli Stati Uniti lo hanno fatto conferendo a essa un mandato chiarissimo. Niente nuove tasse, nessun aumento di quelle già vigenti, e pure quelle peraltro…

Il movimento popolare che ha determinato la composizione della Camera è infatti costituita da quel movimento dei "Tea Party" che è macroscopicamente una rivolta generale contro la fiscalità esagerata e che però non è solo quello. Della lotta alle tasse ingiuste i "Tea Party" hanno fatto un punto primario e decisivo della propria battaglia politica e culturale poiché ritengono, e non sprovvedutamente, che da essa dipendano direttamente altre battaglie forse in assoluto più importanti. Lo sforzo dei "Tea Party" per assicurare al Paese una economia nazionale solida, responsabile, davvero equa e autenticamente libera passa attraverso la "madre di tutte le battaglie" quella per una fiscalità seria e adeguata, cioè anzitutto assai ridotta, perché il "movimento" è convinto che ogni difesa di princìpì sociali, politici ed etici non negoziabili che possa avere speranza di successo concreto passi anzitutto - se non altro negli Stati Uniti di questa stagione storica - attraverso la liberazione dei singoli, delle loro famiglie e delle loro intraprese dalla schiavitù statalista il cui braccio operativo principale è la tassazione esagerata che rende succubi i cittadini.

E qui allora che lo scontro sul debt-ceiling scopre le carte, rivelandosi per ciò che è: la contrapposizione tra due filosofie di governo, tra due pensieri sulla società, tra due scuole antitetiche. In soldoni (è proprio il caso di dirlo), l’una è quella che teorizza più società e meno Stato, l’altra il suo contrario speculare. Negli Stati Uniti la prima configura la Destra, la seconda la Sinistra, le quali, tagliate sul problema dell’ora presente, pensano - rispettivamente - che le voragini di bilancio siano un male da colmare presto e bene tagliando drasticamente la spesa pubblica senza aumentare di una virgola l’imposizione fiscale viceversa che servano a socializzare le necessarie perdite del "sistema" attraverso quella "ridistribuzione del reddito" sotto forma di servizi e di assistenza che sono le tasse maggiorate.

A costo, la Destra, di mandare il Paese sul lastrico, quel default fallimentare che la Sinistra agita ora come uno spettro? Forse no. Gli esperti affermano infatti che il mancato innalzamento del debt-ceiling entro il 2 agosto non causerà il diluvio universale (al contempo però garantendo al mondo dei "Tea Party" un asso elettorale straordinario): ne riferisce le valutazioni Christian Rocca su Il Sole-24 Ore del 27 luglio ricordando che«l’America non rischia il default. Gli Stati Uniti non sono la Grecia. I mercati non sono preoccupati dall'insolvenza di Washington. Le agenzie di rating scalpitano, ma l'America non ha un problema di liquidità. L'economia non cresce e dovrebbe, ma gli investitori non mettono in dubbio le capacità di pagare gli interessi sui 15.476 miliardi di debito pubblico previsti per la fine dell'anno».

A questo punto quegli stessi gli esperti debbono dire se per colmare il debito americano al tempo della crisi globale è tecnicamente possibile contare solo sulla riduzione della spesa o se è invece indispensabile  aumentare le tasse. Nel mezzo passa la crescita dei "Tea Party" da movimento di lotta a forza di governo, ma la posta in gioco potrebbe non essere solamente d’interesse americano.